La stanchezza della guerra si diffonde tra i palestinesi: magari! 13/10/2024
Commento di Ben Cohen
Autore: Ben Cohen

La stanchezza della guerra si diffonde tra i palestinesi. Magari!
Commento di Ben Cohen
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/war-fatigue-settles-among-palestinians/

Palestinesi stanchi di essere usati come carne da macello da Hamas. Stanno perdendo tutto per fare numero e attirare al movimento terrorista la solidarietà internazionale

Un anno dopo che le atrocità di Hamas nel sud di Israele hanno innescato una guerra su più fronti tra lo Stato ebraico e i proxy regionali dell'Iran, tra molti palestinesi, in particolare tra quelli di Gaza, sta emergendo una tendenza evidente: si stanno stancando della guerra. La stanchezza della guerra non significa che i palestinesi abbiano improvvisamente sviluppato un desiderio di vera pace, una pace, cioè, in cui venga accolto senza contestazioni il diritto di Israele a esistere, unito ad accordi commerciali, educativi e culturali che sostituiscano i boicottaggi e un'attenzione condivisa sulla sicurezza regionale e sullo sviluppo regionale. L'ideologia eliminazionista , prerogativa del movimento nazionale palestinese, che si è espressa con singolare brutalità durante il pogrom del 7 ottobre nel sud di Israele, è ancora prevalente.    Ma a differenza degli idioti ben pasciuti che indossano kefiah, suonano tamburi e urlano slogan antisemiti nelle strade e nei campus universitari delle città occidentali, i palestinesi di Gaza hanno sofferto immensamente a causa delle azioni di Hamas.

Molti di loro ora si chiedono se ne sia valsa la pena. In effetti, nel corso di quest'anno, sono emerse sacche di dissenso tra i comuni cittadini che vivono a Gaza, stufi di quei delinquenti di Hamas che rubano gli aiuti umanitari destinati alle loro famiglie: alcuni di loro accusano giustamente l'organizzazione terroristica di non preoccuparsi minimamente del loro benessere, dato che una risposta punitiva da parte di Israele non è mai stata messa in dubbio sulla scia del massacro di 1.200 persone. Un rapporto dell'agenzia di stampa Reuters della scorsa settimana ha citato una madre di Gaza di nome Samira che ricordava con nostalgia com'era la sua vita prima del 7 ottobre. “Nonostante tutte le difficoltà, la nostra vita andava bene. Avevamo un lavoro, una casa e una città”, ha detto. La sua doverosa descrizione di Israele come “il nostro principale nemico” non le ha impedito di incolpare Yahya Sinwar, la mente che sta dietro a quell'atrocità, per aver innescato la risposta israeliana. “Cosa stava pensando? Non si aspettava che Israele avrebbe distrutto Gaza?” ha chiesto. Sinwar si aspettava proprio questo. Era questo che lui voleva.

Il “Macellaio di Khan Yunis” — un soprannome che Sinwar si è guadagnato per la sua reputazione di torturatore e assassino di palestinesi contrari ad Hamas — considera senza dubbio il “martirio” come un degno compimento della sua campagna intrisa di sangue.

Il suo compagno miliardario che risiede in Qatar, Khaled Mashaal, la pensa allo stesso modo, dichiarando in un'intervista la scorsa settimana che Hamas “risorgerà come una fenice” dalle ceneri di Gaza. È facile dirlo se ti rilassi al Four Seasons di Doha indossando un costoso abito italiano. Non è così facile invece se sei un abitante di Gaza, costretto a convivere con le conseguenze della patologia di Hamas. Lo conferma un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, un istituto con sede a Ramallah, che ha efficacemente osservato i mutevoli sentimenti tra i palestinesi nell'ultimo anno. In data 14 settembre, rivela che per la prima volta la maggioranza dei civili di Gaza, circa il 57%, ora crede che le atrocità del 7 ottobre siano state un errore. Anche la convinzione che Hamas controllerà ancora Gaza dopo che la guerra sarà finita, è diminuita, con il 37% dei cittadini di Gaza che concordano con essa rispetto al 70% degli intervistati in Cisgiordania. Vale la pena notare anche le mutevoli opinioni su una soluzione definitiva del conflitto. Circa il 39% degli intervistati sostiene una soluzione a due Stati, una cifra che sale al 59% quando non viene menzionata la frase “soluzione a due Stati”, ma i confini di uno Stato palestinese vengono definiti dalle linee di armistizio del 1949.

Solo il 19% degli intervistati ha espresso sostegno per una confederazione israelo-palestinese, mentre solo il 10% ha sostenuto lo Stato unico, “dal fiume al mare”, che comporterebbe la completa eliminazione di Israele. La realtà dello stato d'animo tra i palestinesi dunque è questa, il che è una buona ragione per non essere eccessivamente ottimisti.

Visti i duri colpi subiti nell'ultimo anno, con l’organizzazione di Hamas decimata come forza combattente coesa e gran parte di Gaza ridotta in macerie, non sorprende che sempre più palestinesi di Gaza stiano riconoscendo di averne avuto abbastanza. Il cambiamento potrebbe aiutare a garantire un cessate il fuoco e il rilascio dei 101 ostaggi israeliani che ancora languono nella prigionia di Hamas (anche se, finché è Sinwar che prende le decisioni e ignora le suppliche del suo popolo, ci sono meno probabilità di tale risultato).

Ciò che non farà è portare una pace in cui Israele sia accettato dai palestinesi e in generale dal mondo arabo alle sue condizioni. Gli israeliani rimarranno giustamente scettici nell’aspettarsi troppo nel cambiamento di umore. L'idea di uno Stato ebraico democratico con una presenza permanente nella regione rappresenta ancora una linea rossa che la maggior parte dei palestinesi non oltrepasserà. Come dice la riflessione popolare, una cosa è pensare con la testa, un'altra è sentire con il cuore.

Con Hamas alle corde, con il suo alleato Hezbollah in Libano umiliato e indebolito dalle operazioni di Israele a nord del confine, e con l'Iran che affronta un contrattacco israeliano che potrebbe persino porre fine al regime di Ali Khamenei a Teheran, la fonte principale di tutta questa sofferenza, una testa ragionevole giungerà alla conclusione che è il momento giusto per un accordo provvisorio.

Ma l'eliminazione dell’altro continuerà a covare nei cuori palestinesi a meno che e finché il tutto non venga affrontato correttamente. Si dice spesso che la trasformazione totale della Germania nazista e del Giappone imperiale alla fine della Seconda Guerra Mondiale sia stata possibile solo perché entrambi i regimi in quei Paesi sono stati inequivocabilmente sconfitti.

Guardando alla politica palestinese oggi, siamo molto lontani da un simile scenario.

Tutti i leader e tutte le fazioni che predominano, islamisti o nazionalisti, Marwan Barghouti di Fatah o Yahya Sinwar di Hamas, sono legati all'idea che il sionismo sia alla radice dei loro mali. Qualunque cosa li divida, sono uniti nella convinzione che la loro “liberazione” possa essere raggiunta solo a spese di un altro Stato e di un'altra nazione; essenzialmente, un gioco a somma zero che stabilisce che affinché la Palestina viva, Israele deve morire.

Oserei sperare, dati i progressi sul campo negli ultimi mesi, che Israele possa ridurre significativamente, se non eliminare, la prospettiva di un altro 7 ottobre.

Non oso sperare molto di più.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate