Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/10/2024, a pag. 1/29, con il titolo "Una disperata solitudine", il commento di Goffredo Buccini.
Goffredo Buccini
Lo dicono dall’inizio, in patria, all’estero e in ogni occasione. E l’ha ancora ripetuto l’ambasciatore Jonathan Peled al Tempio Maggiore di Roma, durante la commemorazione del 7 ottobre: «Non possiamo permetterci di perdere questa guerra, ed è per questo che la vinceremo». Le guerre naturalmente si possono perdere, e anche con esiti disastrosi.
Ma nel caso di Israele la peculiarità consiste nella percezione che una sconfitta sarebbe ben altro: equivalendo alla pura cancellazione dello Stato ebraico dalla carta geografica, come auspicato del resto in tanti cortei «pro Pal» con lo slogan «Palestina libera dal fiume al mare», che sottintende libera dagli ebrei. Sicché bisogna forse partire da qui, dalla necessità di una vittoria esistenziale, e dalla disperata solitudine che ne accompagna l’inseguimento, per sciogliere un equivoco sulla tenace motivazione degli israeliani a combattere contro tutto e tutti: contro i fantocci criminali dell’Iran e adesso contro l’Iran stesso, contro un’opinione pubblica mondiale sempre più ostile, contro i ragionevoli timori degli alleati americani per un’escalation incontrollata, contro i fantasmi dell’antisemitismo resuscitati dai morti, dai troppi morti innocenti di questi terribili dodici mesi; e perfino, da ultimo, contro le forze Unifil delle Nazioni Unite in Libano (di cui fa parte un contingente italiano di mille soldati), ritenute d’intralcio nelle operazioni dell’Idf tra il fiume Litani e il confine, e dunque fatte segno di attacchi gravissimi che, sul piano della reputazione internazionale, equivalgono a un ulteriore harakiri.
Perché la guerra, per Gerusalemme, è stata sin dapprincipio assai più larga dei campi di battaglia. E, diventando contesa di cuori e di coscienze, s’è trasformata in quella trappola di cui parlava Thomas Friedman all’indomani dei pogrom nel Negev e nei kibbutzim al confine con Gaza: il grande inganno preparato da Hamas e dagli ayatollah per trasfigurare Israele, da vittima, in Stato-paria, odiato da tutti, a causa d’una rappresaglia infinita e smisurata sulla pelle di troppi civili gazawi (e ora anche libanesi). S’è profilato nel dibattito pubblico di questi mesi un parallelo tra la risposta degli Stati Uniti all’attacco alle Torri dell’11 settembre 2001 e quella di Gerusalemme all’aggressione del 7 ottobre.
Tale raffronto trae certamente origine dagli ammonimenti (inascoltati) del presidente americano Biden, all’indomani del pogrom, a «non fare gli errori che noi facemmo allora». E si nutre anche di un accorato appello rivolto di recente da Netanyahu direttamente agli iraniani, «presto sarete liberi e tutto cambierà», preannunciando l’attacco contro il regime di Teheran. Sicché si attribuisce al piano israeliano denominato «Nuovo ordine» un disegno di «esportazione della democrazia» per via militare analogo a quello che spinse il gabinetto di guerra di George Bush a invadere prima l’Afghanistan e poi l’Iraq, infilandosi in una lunghissima occupazione che produsse molti frutti avvelenati: la nascita dell’Isis e, da ultimo, la sciagurata riconsegna dell’Afghanistan ai talebani con una fuga da Kabul assai simile a quella da Saigon degli anni Settanta.
E tuttavia questo paragone non sta in piedi: peggio, ci allontana dalla comprensione delle cose. A parte la perdurante angoscia di New York colpita nel simbolo delle Torri gemelle, a nessun americano in quegli anni passò mai per la testa l’idea di potenze islamiste capaci di annichilire gli Stati Uniti sul loro territorio, cancellandone il profilo dalle mappe. Che è, invece, esattamente, l’incubo che accompagna ogni israeliano dal sabato nero del pogrom. Quel giorno si è verificato uno strappo nell’anima di ogni cittadino di Israele, essendosi distrutta l’illusione di invulnerabilità che lo Stato con la Stella di David era stato capace di infondere in ciascuno dal 1948. Tale fragilità esistenziale si ritrova nelle parole di Ella Mor, «siamo feriti e sanguinanti, in guerra da un anno, lottando per la nostra sopravvivenza»: venuta in Italia per le commemorazioni del 7 ottobre, Ella è la zia di Avigail Idan, la bambina di quattro anni che i miliziani di Hamas hanno imprigionato in un tunnel di Gaza dopo averle massacrato i genitori davanti agli occhi, lasciandola nel buio coperta del loro sangue per 51 giorni. Potentissima testimonial dell’orrore assoluto, tutte le sue parole trasudano di quel «noi o loro» che s’è depositato nella profondità delle coscienze israeliane. Un bivio. Che c’entra assai poco con la diffusione della democrazia nel Medio Oriente e molto, invece, col bisogno di non essere più circondati da entità ostili aventi come ragion d’essere la scomparsa degli ebrei dalla faccia della terra.
La solitudine di Israele è, dunque, per noi quasi intraducibile: deriva dalla difficoltà dell’Occidente di comprendere questa condizione, in un territorio che era (e, nonostante tutto, resta) avamposto dei valori occidentali dentro un quadrante geopolitico dominato da teocrazie e regimi assoluti. Anche le aggressioni al contingente di pace delle Nazioni Unite in Libano, che noi giustamente viviamo come un’oltraggiosa violazione del diritto internazionale e umanitario, sembrano essere per gli israeliani un tassello d’un mosaico ben più ampio (basti guardare come la notizia viene seguita dal sito d’un giornale progressista quale è Haaretz ). Per un Paese che si porta addosso il fardello morale di quarantamila morti a Gaza (vittime, certo, della guerra asimmetrica voluta da Hamas sulla pelle dei palestinesi e tuttavia, indiscutibilmente, vittime del piombo di Tsahal), le scaramucce coi caschi blu sono collaterali, e lo sarebbero perfino se diventassero letali. Dopo 76 anni di assedio esistenziale, patito sin dalla sua fondazione, la democrazia di Israele ha smesso di parlarci. Alla fine di questo incubo, ritrovare parole condivise sarà l’inizio della rinascita.
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