Riprendiamo da BET Magazine, numero di ottobre 2024, a pagina 16, con il titolo "Come rompere la solitudine di Israele (e la nostra)", il commento di Marina Gersony.
Marina Gersony
Si tratta di un attacco esclusivamente contro Israele, o di un assalto ai valori fondamentali delle democrazie e alla nostra coscienza collettiva? Durante la presentazione del suo saggio Solitudine di
Israele al Teatro Parenti di Milano, il 23 settembre, Bernard-Henri Lévy ha dialogato con Maurizio Molinari, preceduto dai saluti di
Andrée Ruth Shammah, tracciando un quadro allarmante di un’aggressione apparentemente locale ma dalle conseguenze globali, che costringe a confrontarsi con una verità troppo spesso ignorata o sminuita. Perchè il 7 ottobre non ha segnato solo un dramma per Israele, ma ha rappresentato un vero e proprio tsunami capace di sconvolgere l’intero equilibrio geopolitico mondiale.
«Quella sera, dopo aver appreso del pogrom, ho deciso di partire, nonostante le difficoltà nel trovare voli - racconta Lévy -. Sono arrivato l’8 ottobre con i combattimenti ancora in corso e ho deciso di descrivere e riflettere sull’importanza politica e metafisica di quanto è avvenuto. Perché il giorno dell’attentato divide la storia di Israele e
degli ebrei del mondo? Ho scritto questo libro anche in uno stato di rabbia e indignazione, perché ho visto le ceneri dei kibbutz ancora calde.
Ho trascorso notti con le famiglie degli ostaggi, che ancora aspettano. Ero profondamente toccato da quella sofferenza
e da questo crimine di massa».
Tra le numerose domande emergenti, una si impone con forza: quanto accaduto è solo un’altra fase del lungo conflitto israelo-palestinese, o fa parte di una guerra più ampia contro le democrazie e i loro valori fondamentali? Lévy non si limita a cercare risposte, ma analizza anche le complesse alleanze che orbitano attorno ad Hamas, coinvolgendo potenze come l’Iran, la Russia, la Cina e la
Turchia. La risposta israeliana è stata adeguata alla minaccia? È possibile confrontare le vittime civili di Gaza con quelle di Mosul, liberata dall’ISIS, o con i bambini gasati dal regime di Assad? Lévy non si ferma qui e pone ulteriori domande urgenti: l’antisemitismo, che sta riemergendo in varie parti del mondo, può essere arginato? E soprattutto: la solitudine diplomatica di Israele è una condanna inevitabile?
Attraverso un’analisi minuziosa e lucida, l’autore affronta questioni scomode che vanno ben oltre i confini di Israele, toccando temi universali di giustizia, libertà e il fragile equilibrio della pace mondiale.
Partendo da quel 7 ottobre 2023, in cui Israele ha subito il peggiore attacco terroristico della sua storia, ci si sarebbe aspettati una reazione immediata di solidarietà da parte del mondo e una condanna unanime del terrorismo. Invece Israele si è trovato solo, circondato da critiche e accuse, mentre molti hanno minimizzato l’evento o, peggio, hanno accusato Israele di esserne in parte responsabile. Lévy esplora quello che definisce uno strano isolamento morale e descrive una situazione in cui, dopo un attacco
così brutale, anziché ricevere supporto, Israele viene criticato, come se la sua stessa esistenza fosse il vero problema. «Ho sentito ovunque nel mondo, in Francia, in America, all’ONU, nel Sud globale, un sussurro molto strano, un moto strano crescere continuamente. Non hanno nemmeno concesso alle vittime, ai sopravvissuti o alle famiglie delle vittime qualche giorno per piangere. Subito c’è stata un’esplosione di antisemitismo che ha travolto gran parte del pianeta, e questo per me è stato un mistero profondo. Un evenito enorme è accaduto, e improvvisamente un
secondo evento è stato quello di cancellare, dimenticare il primo.
Perché? Cos’era in gioco? Quali erano i meccanismi di questa reazione così crudele di gran parte della comunità internazionale?
E perché Israele era di colpo così solo tra le nazioni?».
Lo scrittore sottolinea che non si tratta di un fenomeno nuovo. Non è
la prima volta che si cerca di giustificare le violenze contro Israele con argomenti che ribaltano i fatti, trasformando la vittima in colpevole. A partire dall’antisemitismo crescente in tutto il mondo: «Ho visto un gran numero di persone manifestare contro Israele e contro gli ebrei, strade bloccate, slogan antisemiti e proPal, professori americani esultare dopo l’attacco del 7 ottobre, parlamentari dire cose atroci […]. E non parliamo di quella parte del mondo arabo-musulmano dove hanno danzato per le strade. È stata un’ondata globale, e quel momento di sgomento è stato poi oscurato e cancellato».
Lo stesso Jean-Paul Sartre, riflettendo sull’antisemitismo, lo descriveva come una “passione”, un odio che non si basa sulla ragione, ma su pregiudizi radicati. Oggi, sembra che Israele sia vittima di una versione moderna di questa passione. Invece di riconoscere la legittimità della sua autodifesa, viene trattato come un paria internazionale, come se difendersi fosse in sé un crimine. Amos Oz, a sua volta, aveva spesso sottolineato come il conflitto israelopalestinese venga visto con occhi distorti, in bianco e nero. Per molti, Israele è sempre dalla parte sbagliata. Anche quando è costretto a rispondere ad attacchi terroristici, la sua reazione viene giudicata in modo sproporzionato. Oz credeva nella pace, ma sapeva bene che non si può semplificare una situazione così complessa. Purtroppo, è proprio questa semplificazione che domina nel dibattito pubblico, dove Israele viene demonizzato, mentre le violenze subite passano in secondo piano.
Lévy evidenzia dunque come Israele sia costantemente giudicato con un metro di misura diverso. Mentre altri conflitti nel mondo vengono ignorati o minimizzati, ogniazione di Israele viene osservata con una lente amplificata.
Questo doppio standard è una forma di ostilità mascherata da critica politica: «Credo che Israele abbia due obiettivi morali e militari: liberare gli ostaggi e impedire a Hamas di ripetere simili atrocità. Spiego perché queste missioni siano compatibili e perché la vittoria in questa guerra sia possibile, a patto che l’Occidente si schieri al
fianco di Israele. Sono convinto che questa guerra giusta sarà vinta, se gli alleati naturali di Israele si impegneranno a sostenere la sua causa».
A proposito delle vittime palestinesi, Lévy sottolinea che, da 50 anni, riconosce la tragicità della situazione palestinese e continua a ribadirlo con forza anche oggi: «L’attentato del 7 ottobre non ha nulla a che fare con la Cisgiordania e i diritti legittimi del popolo palestinese. I leader di Hamas, sia militari che politici, non hanno alcun interesse nei diritti palestinesi; si preoccupano solo di far avanzare la loro causa e non dei civili. Non è accettabile la morte dei bambini, sia palestinesi che israeliani.
Gli sforzi israeliani per evitare vittime civili, come l’apertura di corridoi umanitari e l’evacuazione dei civili, sono notevoli, anche se la situazione rimane insostenibile. Se la comunità internazionale costringesse Israele a fermare la guerra, il rischio è che Hamas venga salvato e ne esca rafforzato, con la conseguenza di nuovi attacchi e la perpetuazione della violenza. Non ci sarà uno Stato palestinese finché Hamas continuerà a governare, poiché la sua
vittoria garantirebbe altri conflitti».
In conclusione, il filosofo invita a considerare Israele con maggiore equità, senza pregiudizi e senza aspettarsi che si comporti in modo diverso da qualsiasi altro paese in condizioni simili.
Lévy termina il suo libro con un appello forte e chiaro: «Israele non cerca di essere amato, ma solo di essere trattato con giustizia». Non chiede favori speciali, ma semplicemente che il mondo riconosca la sua legittima difesa come farebbe con qualsiasi altra nazione.
In un’epoca in cui il giudizio morale è spesso distorto, questa richiesta appare più che ragionevole. Lévy osserva: «Non parlo di
politica – ognuno può avere la propria posizione sulla politica interna di Israele. Per quanto mi riguarda, sono un liberale da 50 anni, e lo sono più che mai, nel senso inglese del termine. Ma ho scritto questo libro per rispondere a chi dice continuamente che Israele è uno Stato coloniale. Rispondo precisamente a questo. Rispondo concretamente a chi dice che Israele è uno Stato basato sull’apartheid. Spiego, spero in modo freddo e logico, perché questa accusa non solo è falsa, ma è assurda, sciocca, folle. Provo a spiegare a chi ancora non lo capisce perché Israele dovesse essere
creato, perché fu creato e perché Israele è così importante, così centrale per l’umanità di oggi. Spiego perché un mondo senza Israele, o con un Israele indebolito, sarebbe un mondo molto peggiore, sull’orlo di disastri senza precedenti».
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