Come la Cina sta colonizzando il Tibet, cancellando la sua cultura
Analisi di Gianni Vernetti
Testata: Linkiesta
Data: 09/10/2024
Pagina: 1
Autore: Gianni Vernetti
Titolo: La sinizzazione forzata del Tibet, della sua anima, e del prossimo Dalai Lama

Riprendiamo da LINKIESTA , con il titolo "La sinizzazione forzata del Tibet, della sua anima, e del prossimo Dalai Lama", l'analisi di Gianni Vernetti.

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Gianni Vernetti

Bandiera rossa su Lhasa. Dal 1950, anno della conquista cinese del Tibet, il regime maoista sta cancellando la cultura buddista e manipola anche la successione del Dalai Lama. 

La Repubblica Popolare Cinese, dopo avere occupato militarmente il Tibet nel 1950, ha promosso un radicale processo di «sinizzazione» delle aree tibetane occupate per sradicare e cancellare storia, identità, cultura, lingua e religione della popolazione tibetana. Nella «neo-lingua» di Pechino, il Tibet è letteralmente scomparso per essere sostituito dal termine «Xizang» con un’ampia campagna di ridisegno semantico che ha coinvolto testi scolastici, carte geografiche, indicazioni stradali.

Si tratta di un radicale processo di riscrittura della storia che vuole negare il fatto che il Tibet da molti secoli sia un paese con tutte le caratteristiche di uno stato indipendente: un governo stabile capace di amministrare il paese, una documentata rete di relazioni diplomatiche con le nazioni vicine, come Cina e India, oltre a esercito, moneta e sistema postale propri. Ed è sufficiente sfogliare le carte geografiche degli ultimi cinque secoli per trovare costantemente il Tibet separato dalla Cina.

Con l’avvento al potere di Xi-Jinping nel 2014, tale processo ha assunto modalità e connotati sempre più aggressivi e invasivi. Si stima che oltre un milione di bambini tibetani siano stati sradicati dalle proprie famiglie per frequentare delle «boarding school» nelle quali è vietato parlare tibetano, e le nuove generazioni subiscono un costante e prolungato indottrinamento per apprendere la neo-storia cinese. Pechino ha poi negli anni alterato drasticamente la demografia della regione con un ampio programma di incentivi fiscali e salariali per favorire la colonizzazione cinese di ampie aree dell’altopiano tibetano che ha già alterato in modo significativo il mix etnico e culturale del paese delle nevi.

La Repubblica Popolare Cinese usa anche l’occupazione del Tibet come leva geopolitica nei confronti dei paesi confinanti a cominciare dall’India. La competizione tra Cina e India si snoda lungo i tremila chilometri di confine dell’altopiano tibetano, accompagnata da un un ampio processo di militarizzazione. Pechino non si è limitata a costruire nuove basi militari in alta quota, ma ha sviluppato una rete di villaggi di frontiera sotto controllo dell’esercito, ampliando così la sua presenza strategica nella regione. La cosiddetta Great Wall of Villages, una nuova grande muraglia fra i quattromila e cinquemila metri di altezza incombe sulla grande democrazia indiana.

Infine, l’idro-geopolitica. Pechino sta promuovendo una serie di grandi progetti infrastrutturali lungo il corso dei principali fiumi dell’altopiano tibetano con l’obiettivo di un massiccio sfruttamento energetico che sta già alterando il profilo idrografico di una regione molto più vasta: Indo, Gange, Brahmaputra, Mekong, Fiume Giallo nascono tutti in Tibet e il controllo di queste acque produce un impatto rilevante sulla vita e sull’economia di tutti i paesi del Subcontinente indiano e dell’Asia del Sud-Est.

Ma l’obiettivo principale è stato da sempre la guida spirituale del buddismo tibetano: Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama del Tibet. Nel 1959 l’esercito popolare cercò di catturare il giovane Dalai Lama e solo la spontanea insurrezione della popolazione di Lhasa permise alla guida spirituale e politica, allora ventinovenne, di fuggire a cavallo, accompagnata da un piccolo manipolo di soldati, verso l’India.

Arrivato al monastero di Tawang, nell’attuale stato indiano dell’Arunachal Pradesh, che Pechino continua a rivendicare, il Dalai Lama trovò rifugio in India prima a Mussoorie e poi a Dharamsala. Qui si stabilì il Governo tibetano in esilio, noto come Central Tibetan Administration, insieme a numerose organizzazioni della diaspora tibetana, che hanno mantenuto viva una tradizione millenaria minacciata di estinzione dalla repressione della Repubblica Popolare Cinese.

L’allora primo ministro Jawaharlal Nehru garantì una casa sicura al Dalai Lama e a oltre centomila tibetani che nei mesi successivi fuggirono dalle persecuzioni nel paese delle nevi. L’India, paese libero e democratico, con una società multietnica e multiconfessionale, ha rappresentato un approdo sicuro per la comunità tibetana e Dharamshala, nello stato indiano dell’Himachal Pradesh, è diventata un centro globale per la salvaguardia della cultura, religione e istruzione tibetane, attirando studiosi, pellegrini e praticanti da tutto il mondo.

Dopo avere occupato il territorio del Tibet e soggiogato la sua popolazione, Pechino adesso tenta la sfida più ambiziosa: cercare di controllare l’essenza stessa dell’identità tibetana, interferendo nel processo di successione o reincarnazione di Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama e premio Nobel per la Pace. Dopo aver cercato invano per cinquant’anni di screditare la figura del Dalai Lama, rendendo persino illegale il possesso di sue foto in Tibet, Pechino ha ora messo in atto una strategia mirata a controllare il processo di successione e reincarnazione del leader spirituale. L’obiettivo è insediare un Dalai Lama «di fiducia», leale al Partito Comunista Cinese.

Il tentativo di Pechino di appropriarsi e controllare il sistema della reincarnazione colpisce il cuore dell’identità religiosa del Paese: la reincarnazione è centrale nella fede e nella pratica buddista tibetana, radicata nel concetto del ciclo di nascita, morte e rinascita. Nel 2007 è stata approvata dal governo di Pechino una prima legge che richiede a tutti gli esponenti clero buddista tibetano di alto rango, definiti «Buddha viventi», di ottenere l’approvazione e la validazione del governo per la loro reincarnazione.

In pratica, il governo di Pechino si sta appropriando del diritto di interferire direttamente nel processo di reincarnazione, subordinando la tradizione buddista e il suo complesso sistema di regole per la scelta del successore del Dalai Lama alle norme imposte dal Partito comunista. Nel maggio del 1995 il governo di cinese sequestrò Gedhun Choekyi Nyima, un bambino di soli sei anni, dopo che era stato individuato come la reincarnazione del Panchen Lama, un’altra figura chiave del buddismo tibetano. Da allora non si hanno più sue notizie e il giovane Panchen Lama è considerato il più giovane prigioniero politico della recente storia dell’autocrazia cinese. Contemporaneamente il governo cinese ha individuato un «suo» Panchen Lama in Gyaincain Norbu, che non gode di alcuna autorità spirituale fra la popolazione tibetana, ma che da allora viene esibito da Pechino durante molti eventi pubblici del Partito comunista, dal Congresso all’Assemblea del popolo.

Il prossimo anno Tenzin Gyatso compirà novanta anni e Pechino sta accelerando i tempi per avviare un processo parallelo di successione: nel 2022 è stata insediata a Lhasa (la capitale del Tibet occupato, ndr) una commissione di venticinque membri per preparare un percorso parallelo di selezione e di nomina del prossimo Dalai Lama. Lo stesso anno si è tenuto anche un seminario fra i quadri del Partito comunista del Tibet e un centinaio di «Buddha viventi», con nove giorni di formazione sulle corrette pratiche buddiste di reincarnazione, autorizzate dal regime.

«È singolare che il Partito comunista cinese, dopo aver bandito per decenni la tradizionale pratica tibetana del riconoscimento dei grandi reincarnati (Tulku) come feudale e superstiziosa – spiega Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet – ci tenga tanto a riconoscere i suoi lama fedeli, redigendo addirittura una lista di circa ottocento lama “patriottici” e ribadendo continuamente che il riconoscimento del prossimo Dalai Lama sarà compito del partito. Come disse lo stesso Dalai Lama: “Sarebbe come se si affidasse a Fidel Castro il riconoscimento del nuovo Papa”».

La prospettiva che in un prossimo futuro ci saranno due Dalai Lama è considerata sempre più credibile, tanto che il Congresso degli Stati Uniti ha approvato nel febbraio del 2022, con una larghissima maggioranza bi-partisan, il “Tibet Resolve Act”, con il quale chiede alla Cina di non interferire nelle pratiche religiose buddiste della reincarnazione, affermando che la scelta sulla successione del Dalai Lama spetta soltanto al Dalai Lama stesso.

Uzra Zeya, sottosegretario di Stato per la Democrazia e gli affari globali, nonché inviato speciale per il Tibet dell’amministrazione americana ha recentemente dichiarato che «L’interferenza del Partito comunista cinese nelle decisioni relative alla reincarnazione del Dalai Lama rappresenta una violazione delle libertà religiose del popolo tibetano e che saranno previste sanzioni contro qualsiasi funzionario del governo cinese che dovesse rendersi complice dell’individuazione e dell’insediamento di un quindicesimo Dalai Lama fasullo». In India e nel Governo tibetano in esilio c’è piena consapevolezza della nuova minaccia cinese. Molti credono che il prossimo Dalai Lama potrebbe essere individuato prima della sua morte, grazie a un processo di «emanazione».

Durante uno degli ultimi incontri che ho avuto con il Dalai Lama a Dharamsala, quando gli chiesi lumi sulle modalità del processo di reincarnazione, alla luce delle mire cinesi sul processo stesso, mi rispose ridendo: «Credo che il prossimo Dalai Lama nascerà in un paese libero e democratico». L’India è il paese candidato ideale per ospitare il successore del Dalai Lama, che continuerà a esercitare in libertà e senza costrizioni la sua funzione di guida spirituale per centinaia di milioni di buddisti in tutto il mondo, rappresentando l’anima e lo spirito di un Tibet libero dal giogo dell’autocrazia cinese.

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