Riprendiamo dal BET Magazine, a pag. 6, l'intervista di Ludovica Iacovacci dal titolo "Gli Italkim in prima linea: come fare contro informazione e raccontare la guerra".
Sono presenti sui giornali italiani, in tv, nei talk-show, radio, sui social media. Parlano gli italiani di Israele con la loro urgenza di narrare la realtà “da dentro”, lontano dai facili appiattimenti. Un impegno dolente per narrare “l’altra faccia del conflitto”, per dare spazio al punto di vista israeliano, smontare la narrativa pro-Pal che domina ovunque e che cerca lo scoop pietistico e lacrimevole «C’era una volta l’informazione… una informazione seria che cerca più fonti e le mette a confronto, per capire cosa succede davvero…, oggi invece si riprende una voce tale e quale, senza verifiche, la voce rotola e si fa notizia, rimbalza, si espande e diventa verità, magari una eco emotiva, senza nessuno che ne controlli la veridicità». Come un bisturi, la voce tagliente di Luciano Assin, giornalista e guida turistica in Israele, descrive il panorama mediatico italiano che dal 7 ottobre in poi cerca di raccontare cosa accade in Medio Oriente. Come lui, in questi mesi di guerra sono diversi gli italkim (italiani residenti in Israele) che si sono impegnati per far conoscere – da Israele e in lingua italiana – un’altra narrazione, un’altra guerra, l’altra faccia della medaglia di una realtà che sui media troppo spesso non ha trovato spazio. Insieme a Luciano Assin, Roberto Della Rocca, Edna Angelica Calò Livne, Daniel Lanternari, Dario Sanchez, sono numerosissime le voci italo-israeliane che si sono prodigate per fornire una contro-informazione che fosse puntuale e efficace. Le news nell’epoca del sensazionalismo «Oggi, sempre più, l’informazione cerca il sangue, il dramma e sembra aver perso il suo compito di informare in maniera obiettiva – afferma Luciano Assin. – Tutti rincorrono la notizia con una velocità tale per cui ognuno vuole essere il primo a darla e nessuno si cura più di verificare se questa è vera oppure falsa; c’è molta più superficialità e ignoranza tra i giornalisti. Dominano il pietismo e il dolorismo, l’informazione strappalacrime, la ricerca di chi è più vittima, si cercano la sofferenza e lo strazio a tutti i costi, senza mai riuscire ad andare oltre e più in profondità. Si condisce poi il tutto con qualche facile parolina di speranza. È uno schema retorico ormai consolidato. Inoltre, quando sei intervistato in televisione non c’è tempo per sviluppare un pensiero, discorso serio. Dei due o tre minuti che passi con il corrispondente di turno, se ne ricavano dieci o quindici secondi per il TG e spesso il giornalista cerca, in nome di una pseudo par-condicio, di trovare un parere della parte avversa, alla ricerca di un bilanciamento che risulti equidistante. Tutto dipende molto dal giornalista, decide lui cosa “far passare” e che peso dare alla tua voce. Insomma, bisognerebbe accettare di intervenire solo a trasmissioni di approfondimento dove puoi articolare un pensiero, avere il tempo di esprimerlo. E non essere obbligati a parlare per frasi a effetto». Ospite di numerosi programmi, ebreo romano che vive dal 1995 nel kibbutz Nir Yitzhak, oggi Daniel Lanternari non esita a dire che «non è facile far arrivare da Israele notizie che siano vere, fatti, cose realmente accadute: perché ha sempre maggior risalto ciò che proviene dalla Striscia di Gaza, ovvero ciò che Hamas fa passare, anche se spesso non si tratta affatto di notizie vere. Ciò che afferma Israele non sempre trova spazio, soprattutto in Italia, Paese dove i giornalisti danno credito ad Hamas e c’è molta faziosità. Francamente sono sconcertato, mi aspettavo più lucidità. Come è possibile che i numeri dei morti dati dai terroristi vengano ritenuti credibili?, e poi, quando ci si corregge dell’errore, farlo notare sottovoce? La battaglia mediatica a favore di Israele non è semplice. Qui si dice che quando ti accusano di avere una sorella dai facili costumi, tocca a te spiegare che una sorella neanche ce l’hai. Questo è il vero clou della faccenda, il vero problema di Israele: che non è mai andato all’attacco dal punto di vista mediatico, scegliendo di restare sempre in difesa». “Esser presi d’assalto”: è la sensazione che prova anche Roberto Della Rocca, manager, già dirigente politico del partito di sinistra Meretz, autore di numerosi post seguitissimi sul suo profilo Facebook. Per spiegare che cosa significhi fare controinformazione ricorre a Pietre, una celebre canzone anni Settanta di Gian Pieretti e Antoine: “Se sei buono ti tirano le pietre/ Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, tu sempre pietre in faccia prenderai”… «Da italo-israeliano di sinistra, mi “tirano” sempre pietre, sia in Israele sia in Italia. In Israele perché sono di sinistra e contrario a questo governo, in Italia perché sono un sionista. Le persone non sanno fare un distinguo tra lo Stato di Israele e il governo di Israele. “Se non sei con noi, sei contro di noi”, dicono: la polarizzazione si mangia qualsiasi dialogo, ed è un periodo difficile per fare una controinformazione equilibrata e calibrata. Inoltre, da entrambe le parti viene usata l’intelligenza artificiale per delegittimare l’altra parte. Io lavoro su Facebook, Telegram, X, Youtube. Nei social c’è chi mi augura di tutto e di più, anche minacce di violenza fisica, ma non mi faccio intimidire». Angelica Calò da Israele parla a La7 Più positivo è l’approccio di Edna Angelica Calò Livne, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione Beresheet LaShalom che crede che la ricetta giusta sia puntare sull’empatia per riuscire ad essere ascoltati: «È il rapporto diretto quello che paga di più, il canale diretto e empatico con le persone affinché, magari guardando il TG, subito il pensiero corra a qualcuno che conoscono e per il quale dispiacersi. Nel corso di questi anni con la Fondazione siamo andati a fare spettacoli con ebrei e arabi. Alla fine di ogni esibizione tra il pubblico c’era chi ci diceva che sentendo il notiziario avrebbe pensato a noi. A me viene spontaneo fare amicizia con giornalisti che arrivano in Israele, osservo che se si crea un rapporto noi non passiamo più per una massa informe di israeliani che ‘ammazzano’ bambini palestinesi, ma diventiamo essere umani che stanno soffrendo, che hanno angosce, paure e problemi immensi e dolorosi. È come quando si vede un film e ci si innamora del personaggio: dovremmo fare in modo che la gente si innamori di noi e si immedesimi con la nostra sofferenza, capendo che qui nessuno vuole queste guerre. Ovunque osservo che molti media passano il tempo a “mostrificarci”, delegittimarci, de-umanizzarci: la nostra umanità viene negata e calpestata, stiamo vivendo momenti difficilissimi». Se Edna Calò punta sull’empatia, il giornalista Dario Sanchez, fotoreporter per l’agenzia The Media Line, sottolinea l’importanza della condivisione dall’interno: «L’obiettivo della mia attività è quello di far sentire gli amici di Israele e le Comunità ebraiche meno sole di fronte all’ondata – quella sì – di disinformazione che ha permeato sia i social media sia lo spazio pubblico. Vorrei fornire elementi, spunti, notizie affinché gli altri possano controbattere rispetto a ciò che sentono in giro, non necessariamente da persone ostili, anche da familiari e amici, sullo stato della guerra». Il giorno del massacro Erano tutti là, in Israele, quel maledetto giorno di ottobre, Luciano Assin, Roberto Della Rocca, Edna Calò, Daniel Lanternari e Dario Sanchez. A un anno di distanza, che cosa è cambiato nella percezione? «Il 7 ottobre io l’ho vissuto direttamente: abbiamo avuto i terroristi dentro casa mia -, ricorda Lanternari che viveva in un kibbutz al confine meridionale con la Striscia di Gaza. – Oggi siamo ancora sfollati. Fino al 7 ottobre dicevamo che per il 95% del tempo vivevamo in un paradiso ma che per il 5% avremmo dovuto soffrire a causa dei razzi di Hamas lanciati contro Israele. Dopo il giorno del massacro non c’è più né il senso di sicurezza né il paradiso; nessuno si sente protetto come dovrebbe essere. È stato un anno di alti e bassi, non facile. Una quotidianità distrutta. La mia famiglia è stata dislocata in più punti di Israele: io dovevo continuare a lavorare, mio figlio era sfollato più a nord rispetto alle mie figlie e mia moglie, ad Eilat. Non abbiamo più avuto una vita da famiglia e ancora adesso non si ha la certezza di ciò che sarà domani. La ricostruzione della nostra casa è rimasta a metà, non sappiamo se si potrà continuare a costruire né se ci torneremo a vivere, essendo in prima linea verso il mare in direzione della Striscia di Gaza. Incertezza è la parola chiave. Mio figlio ha visto i terroristi con i suoi occhi, loro hanno sparato dentro al bagno dov’era nascosto e ha perso gli amici di scuola. Sono stati il pallone e il gioco a salvarlo, adesso. A gennaio ha ripreso a giocare e da poco è partito per la Spagna, si allenerà lì in un’accademia. Per stargli più vicino, verremo in Italia e ci prenderemo un anno sabbatico. Mia moglie non se la sente di tornare a vivere nel nostro kibbutz, quello in cui sono stati uccisi i nostri amici. Noi israeliani siamo sempre quelli chiamati a fornire delle prove della nostra “innocenza”. Personalmente ho sempre sostenuto la scelta di Israele di non mostrare fotografie e video dell’orrore, dei corpi scempiati dopo gli attentati: è una questione di rispetto, che può annichilire sia le famiglie sia gli spettatori. Ai nostri nemici invece, piace l’esibizione, mostrare, ostentare anche fatti o cose che non sono mai accadute. Dopo il 7 ottobre è stata la prima volta che ho creduto necessario mostrare che cosa fosse davvero successo. I terroristi si sono filmati, più di così che cosa volete? Nonostante ciò, c’è chi continua a non credere a quanto avvenuto». Anche Edna Calò conosce l’esperienza di vivere in un kibbutz – risiede a Sasa – e dice che per lei quest’anno è come non fosse stato percepito, vissuto «è scivolato via, sfumato, svanito». A partire dalla mancata percezione del ciclo della natura: «Casa mia è l’ultima casa della fila di abitazioni davanti al Libano. Quando ci torno, di solito cammino guardando il frutteto nella strada sottostante. La guerra è iniziata proprio al tempo della raccolta delle mele e dato che il kibbutz è stato evacuato, io non ho potuto scendere a cogliere le mele. Era tutto verde e manco me ne sono accorta. Durante tutto questo anno sono stata così angosciata e in preda al dolore e alla paura per i miei figli a Gaza che non mi sono neanche resa conto che in realtà è passato un anno. Solo pochi giorni fa ho rivisto il frutteto di nuovo verde. Non ho nemmeno registrato, notato, il periodo in cui le foglie sono cadute e rispuntate, quello in cui sono rinati i primi boccioli e le gemme. È come se quest’anno mi fosse passato accanto, di sfuggita: troppa sofferenza. È come se si fosse tutto bloccato, congelato». Roberto Della Rocca Per Roberto Della Rocca quella data «sembra ieri» e pensa che da quel momento Israele stia vivendo «una specie di post trauma; ma poiché siamo nel vortice della guerra ancora non ci si può fermare per guardare indietro e capire. Siamo immersi in una routine vorticosa che ha l’apparenza di una vita normale ma non lo è: andare a teatro, ai concerti, ristoranti, è tutto forzato, facciamo finta che tutto sia normale, ma la verità è che siamo in guerra con più di 700 soldati morti. Non si vede la fine. Se consideriamo che il dopo guerra sarà con Hezbollah e l’Iran, adesso stiamo ancora vivendo un periodo magnifico rispetto a quanto potrebbe avvenire successivamente». Anche Dario Sanchez sottolinea che «a un anno dal 7 ottobre ci troviamo ancora in guerra. Tutte le speranze che questo potesse essere un conflitto breve e che non avrebbe avuto ripercussioni a livello internazionale si sono dimostrate false, dei wishful thinking. Le operazioni militari vanno avanti e la guerra rischia di allargarsi, in parte si è già allargata a seguito dell’attacco iraniano di aprile e delle azioni di Hezbollah. Ciò che manca è un orizzonte politico per il dopo a Gaza e nella gestione del conflitto più largo con l’asse del male iraniano. Questo combattimento potrebbe entrare in una fase di stallo, somigliare sempre di più ad una guerra di logoramento. Per quanto riguarda la questione degli ostaggi, al di là della retorica, non vi è un orizzonte credibile, neanche a livello di accordi. Sembra quasi che questo tema infastidisca entrambe le parti: Hamas continua con questa sua propaganda vergognosa secondo la quale non saprebbe dove si trovano gli ostaggi, quanti sono morti, quanti sono vivi; dall’altro lato, i messaggi che arrivano dal governo e dai mediatori sono contrastanti. La società israeliana è unita nel chiedere il ritorno degli ostaggi a casa nonostante le differenze di vedute tra chi è disposto ad accettare qualsiasi accordo pur di vederli qui e chi invece vuole farli tornare ma non a qualunque costo. Tutta Israele soffre per gli ostaggi, sia per quelli ancora vivi sia per i morti che non potranno avere degna sepoltura. La politica dovrebbe dare una risposta, qualunque essa sia: o una linea dura nel riportare gli ostaggi a casa senza trattative oppure scendere a patti. L’opinione pubblica israeliana è esausta». Dall’empatia alla condanna Ma come è cambiato l’atteggiamento dei media italiani? «All’inizio c’è stata empatia ma è durata molto poco, subito si è tornati al solito schema manicheistico, cattivi contro buoni – spiega Luciano Assin -. Nell’informazione è tutto molto schematizzato, il reporter cerca lo scoop, il picco drammatico della giornata. Ripeto: è incredibile questa assoluta mancanza nel controllo delle fonti. Quello che conta è sparare il titolone, impressionare il lettore. L’informazione oggi cerca il melodramma, ha perso il suo compito di informare in maniera obiettiva. Qualche mese fa, ad esempio, in una delle riunioni parlamentari della Knesset, i parenti degli ostaggi fecero irruzione. Ebbene, il Corriere della Sera titolò, nel suo sito online, che il Parlamento israeliano, la Knesset, si trovava a Tel Aviv. Vi pare possibile? Nessuno aveva controllato che in realtà il Parlamento è a Gerusalemme». Informazione e controinformazione Che fare allora? Che cosa consigliare alle leadership delle comunità ebraiche in Italia per gestire la controinformazione? La parola chiave è “coordinamento”. «C’è bisogno di qualcuno che dia la linea su quello che bisogna fare – suggerisce Assin. – È necessario coinvolgere giornalisti super partes e non necessariamente ebrei (il che richiede finanziamenti). In questa lotta si è da soli e non bisogna aspettarsi nulla dal governo israeliano. Israele nell’hasbarà ha fallito clamorosamente: addirittura la Ministra responsabile si è dimessa nello stesso momento in cui è iniziata la guerra, ovvero nel momento più importante del lavoro. Inoltre ci sono lotte intestine nel governo, quindi non bisogna aspettarsi che Israele tolga le castagne dal fuoco. La politica del basso profilo per cui “meno si parla di noi meglio è”, si è rivelata fallimentare. Bisogna rispondere a muso duro e mettere in piedi un team legale che non perda occasione per intentare cause legali, quando necessario». Luciano Assin Secondo Edna Calò, se qualcuno ci invita in una trasmissione dobbiamo andarci perché altrimenti la nostra voce non trova spazio. Gli interventi in diretta sono i migliori perché nessuno può tagliare o rimontare ciò che diciamo. Roberto Della Rocca sottolinea invece che il problema sia una questione decennale: «Israele sta perdendo la guerra mediatica da decenni – afferma. – Partiamo da una posizione sfavorevole: agli occhi del mondo siamo i conquistatori e i palestinesi sono i conquistati. Partiamo con un handicap e non sappiamo fare comunicazione. Questo si ripercuote sulle comunità della Diaspora. In Italia, anche nelle due Comunità più grandi, Milano e Roma, spesso non si distingue tra lo Stato di Israele e il suo governo. Non sempre le fonti governative sono oggettive. Bisogna fare coordinamento, presentare del materiale verificato e non cadere nel tifo da stadio. Il tifo fa gola ai mass media, attira l’attenzione dello spettatore ma è malato, viziato, perverso. Da troppo tempo, per Israele, l’elefante nella stanza è la questione palestinese. Se ami Israele devi capire che in un modo o nell’altro questa questione va risolta perché ignorando questo elefante poi finisce che quando si gira, ti schiaccia, come è successo il 7 ottobre. I Paesi occidentali che ci sostengono non è detto che lo faranno per sempre, ricordiamolo».
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