Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 07/10/2024, a pag. 1/IV, con il titolo "Un caso speciale di innocenza che non perdona" il commento di Giuliano Ferrara.
Del 7 ottobre il libro di Sharon Nizza spiega tutto raccontando i fatti. La parte agghiacciante riguarda il massacro e la folta partecipazione popolare alla caccia all’uomo, alla donna, al vecchio, al bambino in nome della volontà di sterminio degli ebrei, unico vero collante del pogrom. Il Festival Supernova, rave arcobaleno, fu il simbolo funesto della spensieratezza e della fiduciosa attesa dell’alba new age convertita in una immersione fosca nella notte e nella morte (il rave è numericamente il luogo più mortale in tutto l’eccidio). Ma la celebrazione laica della festa religiosa e l’ordinario delle vite stroncate nei villaggi, dove furono colpiti runners isolati, famiglie appena alzate o addormentate, piccoli prigionieri nelle camere di sicurezza e negli armadi, in una tormentosa storia di ordinarietà e di vita quotidiana, mentre adolescenti e militanti in arrivo da Gaza facevano a gara nel tiro all’ebreo nelle ore più drammatiche dai giorni di Auschwitz, introducono al capitolo forse più duro da leggere.
La tragica impreparazione dell’esercito, l’improvvisazione generale, frammista ovviamente a episodi di eroismo e combattività che danno il senso della gloria, l’incredulità per le segnalazioni e la documentazione che arrivavano dalle file del nemico irriducibile e dall’osservazione delle sentinelle della frontiera, in maggioranza personale femminile, le ferie del personale di sicurezza, la mobilitazione non conclusiva dello stesso stato maggiore a Tel Aviv, tutto testimonia di un paese che ha una immensa potenza di fuoco e una volontà comune indomita ma è anche piccolo, fragile, insidiato su più fronti, insicuro, vulnerabile, nevrotico, diviso, coraggioso e inquieto.
Il libro va letto non solo come pro memoria, come segnacolo di un orrore senza fine, la sua efficacia è nel far scendere Israele dal cielo della sua fulminante aviazione, della potenza di tiro degli F16, nel farlo uscire dal carapace blindato delle truppe in movimento, nel mescolare leggings divise armi biberon carrozzine sandali in un miscuglio di società e di militarizzazione che fa di quella guarnigione popolare litigiosa e composta di infinite diversità un caso speciale di innocenza che non perdona. Chi legge quelle pagine capisce quanto sia grottesca e infame l’idea della vendetta di Israele, di una sproporzione voluta e coordinata della risposta di guerra, e quanto fantasiosa l’idea che ci fosse una alternativa alla replica lancinante, tragica, durissima, che quel fatto inaudito dai tempi dei Lager ha indotto e induce. L’introduzione di Franceschini insiste su un punto decisivo: la storia del massacro si svolge a due ore e mezzo di auto da Tel Aviv, i numeri della strage sono, in proporzione allo scenario in miniatura su cui si compiono, superiori ai caduti di Pearl Harbor, alle vittime delle Torri di Manhattan, il dolore e la memoria sono lì a due passi da tutti e da tutto, ravvicinati e imparentati dalle distanze che esistono e non esistono. E questo riguarda gli israeliani come coloro che li vogliono sterminare. Una delle testimonianze è quella del medico Bitton, che ebbe in cura Sinwar in prigione e gli salvò la vita con una sua diagnosi e la successiva operazione chirurgica, con un pegno di riconoscenza del capo di Hamas che non è mai stato trasformato se non nella tragedia del 7 ottobre.
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