Riprendiamo da BET Magazine di ottobre 2024, a pagina 1, il commento della direttrice Fiona Diwan.
Fiona Diwan
Cara lettrice, caro lettore quest’ottobre giunge sommesso, quasi di soppiatto, come un’alba ingannevole che ci coglie a tradimento (per parafrasare Primo Levi), fermi sul confine incerto tra buio e luce, senza sapere quale scegliere, l’ombra o il risveglio, appunto: l’estate è già tumulata e lontana, siamo già in ritardo su tutto, la vita ci viene addosso con le sue perentorie ripartenze e i nuovi progetti che incombono. A ben vedere, a questo tempo bislacco ben si addice la riflessività piovigginosa di un autunno che non lesina dilemmi, non fa sconti sulle rese dei conti e le questioni aperte, ci mette di fronte agli inciampi dell’anno che si chiude e alle promesse di quello che si apre. Un tempo ritardatario rispetto alle feste solenni del consueto calendario ebraico, un anno bisestile e dolente, in cerca di riscatto e di una gioia che porti con sé il dono della festa. Dilemmi e questioni aperte, dicevamo. Riusciremo a convincere i nemici che è meglio convivere pacificamente con gli ebrei? Che la Storia non è quella della guerra eterna sotto la bandiera del Profeta finché l’umanità non sarà sottomessa? Davvero, drammaticamente, lo Stato di Israele dovrà, per sopravvivere, diventare uno Stato mediorientale che agisce spietatamente come già fanno i leader di Siria, Iran, Arabia Saudita...? È questo il prezzo che gli ebrei devono pagare per preservare la loro autonomia e le loro tradizioni in Medio Oriente? È davvero questo il nocciolo della spaccatura nella società israeliana, ovvero se sia possibile combattere il male senza usare i mezzi del male? Per adesso, nessuno è in grado di fornire risposte. Ma una cosa è chiara. In un momento in cui un antisemitismo forsennato torna ad affacciarsi sulle vite ebraiche, a un anno dal sabato nero nel Neghev, capiamo che il tempo dell’incredulità e dello sgomento è finito: avanza il tempo della lucida reazione, quello del coraggio da prendere a due mani, lo sguardo tagliente rivolto a questo antisemitismo new look di cui riusciamo a stento a farci una ragione. Lo vediamo rinascere sotto un diluvio di fake news, nel soft-power di influencer incoscienti e ignoranti che hanno milioni di seguaci, lo vediamo affacciato dagli spalti della partita di Nation League Italia-Israele mentre i tifosi voltano le spalle alle note dell’Hatikva (a Budapest), lo vediamo nei gesti di ostilità alle Olimpiadi (quello sportivo è forse il più odioso tra gli ostracismi). E poi nelle università, manifestazioni, sentenze dell’Aja, con l’apoteosi di quell’inascoltabile “Davide discolpati” che si sperava seppellito. Certo, lo sappiamo: ci sono quelli che non ci amano e lo dicono; quelli che non ci amano e non lo dicono; quelli che non ci amano ma dicono il contrario, quelli che non capiscono perché si continui a parlare di noi continuando tuttavia a parlarne; e poi ci sono quelli (pochi) che ci amano e non lo nascondono... E infine ci siamo noi, che diventiamo resilienti, coriacei, che ci rifiutiamo di accomodarci in questo mood. Benvenga allora il prestigioso magazine ebraico-francese L’Arche che titola in copertina Come Israele sta cambiando il mondo, Israele con quella sua incredibile vitalità intrisa di contemporaneo, con quello spirito di libertà che, malgrado limiti e difetti, resta un unicum. Perché forse si tratta davvero di questo, un rimescolamento delle carte, un cambio di passo epocale che ci interroga e ci ribalta, la dimensione singolare e inedita di questo conflitto. Non resta allora che attrezzarsi con un sorriso a denti stretti, attivare quella resilienza di cui siamo i campioni, guardare avanti senza troppo scomporsi e continuare a gioire di una festa, di un canto, di una tavolata imbandita e numerosa. E sperare ancora di trasformare i sogni in realtà, come accade da seimila anni.
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