Trump e Harris si confrontano su Israele
Commento di Antonio Donno
Gli ultimi sondaggi danno in testa Kamala Harris rispetto a Donald Trump. È difficile prevedere se il vantaggio di Harris aumenterà o se Trump troverà qualche argomento sostanziale per ribaltare la situazione. In questo articolo si affronterà la questione sempre al centro del dibattito internazionale riguardante la crisi mediorientale e la posizione di Israele. Da questo punto di vista, mentre per Trump si può fare riferimento a ciò che ha fatto durante i quattro anni della sua presidenza, per la Harris bisogna attenersi a quello che afferma oggi e soprattutto alla sua appartenenza politica e ai suoi riferimenti politici consolidati nel corso degli anni. Il giudizio, dunque, non può essere che sbilanciato, ma comunque non estraneo al diverso atteggiamento politico dei due candidati nei confronti delle relazioni degli Stati Uniti con Israele.
Durante la sua permanenza alla Casa Bianca, Trump presentò il cosiddetto “accordo del secolo” riguardante la soluzione della questione israelo-palestinese, rifiutato subito dai palestinesi. Esso prevedeva che Gerusalemme sarebbe stata la capitale indivisa di Israele e che il costruendo Stato palestinese sarebbe stato “demilitarizzato” e “contiguo” con capitale Gerusalemme Est. Inoltre, il piano prevedeva l’annessione di tutte le colonie ebraiche esistenti e gran parte dell’area C all’interno del territorio, attribuito inizialmente attribuito ai palestinesi per dare vita a un proprio Stato. In sostanza, il piano di Trump favoriva in modo chiaro Israele, piano definito da molti un patto Trump-Netanyahu. Le colonie ebraiche, dunque, furono dichiarate da Trump, nel 2019, non più illegali, quindi facenti parte integrante dello Stato di Israele.
Già nel 2017, il presidente americano aveva spostato la sede dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto conferendo a quest’ultima un significato internazionale di primaria grandezza grazie agli Stati Uniti e contro i sostenitori della divisione della città tra le due parti. Inoltre, Trump approvò l’annessione del Golan, effettuata da Israele nel 1981. In sintesi, nei quattro anni del mandato presidenziale di Donald Trump, il presidente americano aveva, di fatto, operato una scelta politica in favore dello Stato ebraico, assicurando a Gerusalemme una concreta difesa contro i suoi nemici e, con questo, denunciando con forza le posizioni anti-israeliane di Barack Obama. Purtroppo, l’avvento del democratico Joe Biden alla Casa Bianca cancellò molta parte della politica trumpiana favorevole a Israele.
Kamala Harris, la candidata democratica nelle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre, se dovesse vincere, porrebbe seri dubbi sugli atteggiamenti politici di Washington nei confronti dello Stato ebraico. La Harris sarà una seguace di Obama? Tutte le sue dichiarazioni vanno in questa direzione, compreso il disprezzo verso Netanyahu. Per alcuni analisti degli affari internazionali, se la Harris dovesse entrare nella Casa Bianca, si assisterebbe alla fine di un’era nella quale i vari presidenti americani hanno avuto un rapporto personale con Israele. La Harris, infatti, ha affermato in molte sedi che la causa palestinese avrebbe avuto, se eletta, un posto primario nella sua politica mediorientale; in particolare, la creazione di uno Stato palestinese avrebbe avuto una centralità di grande rilievo nella affari internazionali degli Stati Uniti. A questo proposito, è sua intenzione portare a capo del Dipartimento di Stato Phil Gordon, che fu consigliere per la politica estera durante gli anni di Obama. Questo, a conferma di quanto si è detto in precedenza.
In conclusione, Kamala Harris, se vincente, potrebbe riportare alla Casa Bianca buona parte degli atteggiamenti e delle decisioni negative che Obama ha avuto nei confronti di Israele. Così, Hamas e Hezbollah, servi dell’Iran, potrebbero tirare un sospiro di sollievo.
Antonio Donno