Riprendiamo da LIBERO di oggi 26/09/2024, a pag. 1/3, con il titolo "La ricetta Dem sui migranti: suicidarci", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Qualcuno – a sinistra – sta letteralmente andando contromano in autostrada. Da quelle parti, contestano le nuove norme sulla sicurezza; chiedono la cittadinanza facile; ridimensionano, anzi negano ogni rapporto tra immigrazione e commissione di reati (scontrandosi contro un muro di cifre: ma loro proseguono imperterriti a sbatterci la testa contro). Insomma, descrivono una realtà opposta a quella vissuta ogni giorno dagli italiani. Peggio, si fanno beffe di quel sentimento popolare, derubricandolo a “percezione”. E così ogni sera, accendendo la televisione, quei cittadini – già potentemente incazzati – che hanno avuto terrore a camminare nei pressi della stazione della propria città, che si sono sentiti a disagio nell’aprire il portone del proprio condominio, si sentono spiegare dai migliori cervelli della sinistra che non c’è nessun problema, e che anzi sono gli italiani a essere razzisti. E pure fascisti, si capisce.
Resta misterioso come siano sempre meno numerose le teste lucide nel campo progressista: come fanno a non capire che è proprio questa strategia della negazione a rendere la sinistra non credibile presso una solida maggioranza degli elettori? Eppure, come in una diabolica coazione a ripetere, il meccanismo ritorna sempre uguale a se stesso.
È venuto il momento di mettere in fila qualche elementare verità.
Primo. L’immigrazione (anche quella regolare) va mantenuta entro limiti numerici ragionevoli, e dunque il più possibile limitati. Non solo è autolesionistico e pericoloso rimanere passivi davanti all’immigrazione irregolare e clandestina, ma- se vogliamo puntare a un’integrazione che non resti solo sulla carta - occorre che pure la quantità degli immigrati regolari resti entro limiti ragionevoli. Altrimenti non c’è niente da fare: è impensabile puntare ad un assorbimento virtuoso dei nuovi arrivati in un qualsiasi contesto sociale, non solo in quello italiano.
Certo che le nostre imprese hanno bisogno di manodopera: e bene ha fatto il governo a confermare e se possibile ad allargare il canale dei flussi regolari, naturalmente curando di evitare opacità e zone d’ombra. Ma occorre che il numero – anche degli immigrati legali – non sia debordante: altrimenti, dalla sanità al welfare all’ordine pubblico, passando per il tema decisivo dell’identità culturale, la pentola a pressione rischia di scoppiare.
Secondo. La cittadinanza non può essere concessa con troppa facilità, né può bastare un ciclo di studi, un pezzo di carta, un adempimento burocratico, a certificare che l’integrazione sia davvero avvenuta.
Altro che ius soli, e- sarà bene che più d’uno se ne convinca - altro che ius scholae. E altro che referendum per dimezzare i tempi. Può infatti benissimo accadere che, nonostante il decorso di un certo periodo di tempo, altri insuperabili fattori personali o familiari abbiano inibito l’integrazione, abbiano scoraggiato o ostacolato nel soggetto l’accettazione della nostra cultura, con tutte le conseguenze del caso.
Terzo. Di più: una promessa smisurata ed eccessivamente anticipata di cittadinanza e di riconoscimenti formali, nel momento in cui essa è imposta dall’alto (dalla politica, con un approccio ideologico-dogmatico) e non corrisponde al sentire né degli italiani né di chi arriva, non farà che alimentare ulteriori tensioni, e un neanche troppo paradossale mix di rivendicazioni e recriminazioni. Più attriti, più ostilità, più rancore inespresso ma pronto a manifestarsi: altro che integrazione e accettazione.
Quarto. In ultima analisi, oggi abbiamo un meccanismo normativo in forza del quale si diventa italiani per molte strade: perché si è figli di un italiano, perché si è adottati da un italiano, perché si sposa un italiano, perché si nasce in territorio italiano da genitori stranieri (e allora occorre attendere il 18mo anno), o perché da stranieri si risiede in Italia per un certo numero di anni (ad esempio 10, se si è extracomunitari). E sono proprio le norme vigenti che già fanno sì che l’Italia sia il paese record in Europa nella concessione delle cittadinanze. Non solo: anche chi non è ancora italiano ha (ci mancherebbe altro!) totale garanzia di poter studiare, di potersi curare, di poter lavorare, e così via.
E allora che senso ha sbracciarsi politicamente per allargare ancora queste maglie normative? Che ragione c’è di consegnarsi (qualcuno lo fa anche da destra) a una narrazione di sinistra che finisce per colpevolizzare lo status quo, e per accusare di razzismo chiunque si limiti a chiedere un poco di prudenza?
A maggior ragione, dunque, la cittadinanza non va “regalata”: si tratta dell’ultima tappa di un percorso, e a volte nemmeno il compimento di quel cammino garantisce che l’integrazione sia davvero avvenuta.
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