Simona Lo Iacono: Virdimura
Recensione di Giorgia Greco
Testata: Informazione Corretta
Data: 24/09/2024
Pagina: 1
Autore: Giorgia Greco
Titolo: Simona Lo Iacono: Virdimura

Virdimura                                                             Simona Lo Iacono

Guanda                                                                  euro 16,90

 

“Curali partendo non dai loro corpi, ma dai loro lutti. Curali senza sottovalutare gli intoppi, dando più importanza al nascosto che al visibile…dimentica i tuoi meriti, ma soprattutto amali, figlia mia

Alcuni anni fa nel pregevole testo di Giuseppe Sicari “La kippà di Esculapio” (Pungitopo, 2013) sui medici ebrei attivi in Sicilia fra il ‘300 e il ‘400 ebbi il privilegio di incontrare la figura di Virdimura, medichessa di origini ebraiche e prima donna al mondo autorizzata dalla Commissione di Giudici di Palermo ad esercitare la professione medica e chirurgica in un ambiente ancora dominato dagli uomini.

Una donna audace e determinata, capace di sfidare le convenzioni sociali e gli stereotipi del suo tempo. E’ proprio a Virdimura che Simona Lo Iacono, magistrato presso la corte d’appello di Catania, dedica il suo nuovo romanzo ambientato nella Catania del XIV secolo, sullo sfondo dell’Etna e in una città vibrante di vita “colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani”, attraversata dalle superstizioni e dai pregiudizi degli abitanti e dove “chi lavorava o studiava era riunito in caste ristrette, gelose dei propri privilegi”. L’autrice con un linguaggio evocativo e lirico perfettamente coerente con il contesto storico e sociale della Sicilia di quell’epoca, racconta le vicende appassionanti di una donna orfana di madre che cresce con il padre Urìa medico stimato, nonostante le sue radici semitiche, e padre modello.

Urìa che ha alle spalle una storia dolorosa è un uomo privo di pregiudizi, senza alcuna vanità che non desidera diventare ricco o famoso ma solo curare e aiutare chiunque soffra a prescindere dall’estrazione sociale. Dai poveri non accetta compensi e questo lo rende inviso ai colleghi che invece non rinunciano alla parcella. La sua visione laica della professione medica non priva di spiritualità lo porta a studiare incessantemente e, quando occorre, a mettere in discussione le conoscenze acquisite per accoglierne di più moderne. Virdimura, “come il muschio verde che affiora tenace dalle pietre”, cresce senza amici perché nata da “donna impura” con la sola presenza del padre che però fin da bambina le concede di accostarsi ai malati che a lui si rivolgono e di assisterlo nelle cure con l’obiettivo di avvicinare sempre di più la figlia alla professione medica. Per una donna però è un’impresa impossibile perché non solo Virdimura è ebrea ma per i benpensanti “una fimmina non puote essere dutturissa”.

Eppure, nonostante i pregiudizi, le angherie che subiscono, la distruzione della loro casa ad opera di malfattori dopo un’epidemia di tifo che Urìa aveva previsto non creduto, entrambi restano saldi nella volontà di portare avanti una missione difficile ma preziosa.

Virdimura cresce un po’ selvatica e impulsiva, incapace di riconoscere la cattiveria degli uomini, finchè non giunge a Catania Josef de Medico, un amico del padre, che aveva lavorato al Cairo per dieci anni presso l’ospedale di Al Nasiri. Con Josef c’è il figlio Pasquale che “studiava già per diventare medico, ma che amava riparare vecchie gisterne, mobili, sandali sfilacciati” e quando riusciva ad aggiustare un oggetto rotto o far rivivere un meccanismo logorato “sentiva di avere decifrato una lingua sconosciuta, un codice di accesso ai segreti del mondo”. Abituato a viaggiare col padre Pasquale ha uno spirito cosmopolita, aperto al mondo e ben presto le affinità fra i due ragazzi sono così evidenti che nasce un legame destinato a durare a lungo, benedetto da entrambi i genitori. Le vicissitudini della vita li allontaneranno per qualche tempo perché Pasquale viaggerà per impratichirsi nell’arte medica soggiornando in paesi diversi, leggendo testi segreti e apprendendo da ogni popolo per poi fare ritorno a Catania e iniziare a fianco di Virdimura a praticare la medicina rivolgendosi soprattutto “a coloro che la vita aveva incrinato, agli imperfetti, agli indecisi”.

Devono lottare contro le superstizioni dei sacerdoti, le epidemie causate da mancanza di igiene, la carestia che colpisce Catania nel 1330 ma li unisce il desiderio di portare la conoscenza ai più umili per risanarli nel corpo e nella mente, oltre alla sorprendente capacità di rialzarsi dopo ogni avversità.

Le vicende che coinvolgono Urìa, Pasquale e Virdimura sono straordinarie e si snodano in un racconto avvincente attraverso la voce di Virdimura che ripercorre seguendo il filo dei ricordi la sua vita tutta dedicata alla professione medica intesa come vocazione. Perché Virdimura, così si apre il romanzo, si trova a Palermo nel 1376 dinanzi a una Commissione di giudici dopo aver ricevuto un decreto di comparizione. Ormai è anziana, il suo corpo poggia su un bastone e fra le mani stringe un filo di lana di cui avremo contezza solo alla fine del libro con un colpo di scena inaspettato e, consapevole che i giudici hanno fretta di esaminare anche altri candidati alla pratica della medicina, chiede loro di “darle lo spazio giusto per dire e per farvi capire. Lasciate i miei ricordi a scricchiolare”.

Virdimura che non ha potuto frequentare una Scuola Medica in quanto ebrea ma ha appreso dal padre Urìa e da Pasquale le competenze necessarie per praticare l’arte della medicina vuole essere riconosciuta come medichessa e nel novembre del 1376, dopo aver superato una prova di abilitazione alla professione medica gli “augusti doctori” concedono alla dottoressa Virdimura la licenza a curare.

“Dopo averla interrogata e avere sondato la sua abilità la sottoposero a prove pratiche e accertarono che era perita nell’arte medica. Era la prima volta che la “licentia curandi” veniva accordata a una donna”.

La statura morale di Virdimura trova ulteriore conferma nella richiesta della dottoressa di ricevere il riconoscimento con una particolare clausola. “E cioè che la licenza la autorizzasse soprattutto a curare i più indigenti, i più deboli, i più tralasciati”.

Il testo di questa licenza, conservato nell’archivio storico di Palermo, concede a Virdimura iudea la “licenza a praticare l’arte della medicina inerente cure della psiche e del corpo; in massimo grado nei confronti dei poveri”. Da quel momento in poi le donne sono ufficialmente ammesse alla pratica dell’arte medica come gli uomini e possono esercitare non più solo le attività tipiche della levatrice ma anche la professione di chirurgo e di esperte in medicina generale.

Con una straordinaria capacità di portare alla luce storie di donne indomite e dallo spirito innovatore che hanno fatto da apripista a tutte le altre Simona Lo Iacono - che ci aveva già affascinato con la figura della scienziata Marianna Ciccone che salvò testi preziosi dalla razzia dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale nel bel libro “La tigre di Noto” (Neri Pozza, 2021) - ci regala un romanzo storico imperdibile.

Una storia avvincente che è soprattutto un omaggio all’audacia di una donna che ha saputo essere artefice del proprio destino, sfidare ambienti ostili, convenzioni sociali, aprire nuove strade per le donne nella medicina affermando altresì in ogni ambito dell’esistenza la forza delle sue convinzioni e la fede nella conoscenza, pur nel rispetto di ogni essere vivente.


Giorgia Greco

takinut3@gmail.com