Israele solo, Israele indomito 23/09/2024
Commento di Ben Cohen
Autore: Ben Cohen

Israele solo, Israele indomito
Commento di Ben Cohen
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/israel-alone-israel-unbowed/

Bernard-Henri Lévy, nel suo "La solitudine di Israele", racconta di un paese isolato ma indomito, dopo aver subito un crimine orrendo, come quello del 7 ottobre, invece che raccogliere la solidarietà del mondo, riceve l'ostilità di tutte le opinioni pubbliche.

“Si pensa che non dovrebbe reagire, si pensa che dovrebbe sopportare /Dovrebbe sdraiarsi e morire quando la sua porta sarà sfondata.”  Così cantava Bob Dylan nel suo vivace brano del 1983 “Neighborhood Bully”, il cui titolo è un'ironica interpretazione di quanto la maggior parte del  mondo consideri lo Stato di Israele e la nazione che l'ha costruito - come ha osservato Dylan – “sempre sotto processo, solo per essere nata.”  Mi sono ricordato dei testi di Dylan, che purtroppo non hanno perso nulla del loro valore quattro decenni dopo, mentre leggevo l'ultimo libro del filosofo francese Bernard-Henri Lévy, ‘La solitudine di Israele’.

Proprio come Dylan trasmette la grinta di Israele nel reagire nonostante il suo isolamento assoluto e la sua trasformazione da parte dei suoi nemici da vittima a predatore, il libro di Lévy, innescato dal pogrom di Hamas del 7 ottobre dell'anno scorso, comunica più o meno lo stesso spirito. Non turbato dal fatto di scrivere di un bersaglio in rapido movimento, il libro è un classico di Lévy, che cita con nonchalance pensatori e scrittori da Rashi a Pascal, da Hegel a Louis Aragon, mentre si tuffa nella mischia mediorientale per poi risollevarsene con le sue intuizioni rivelatrici.

Il libro inizia con l'arrivo di Lévy in Israele un giorno dopo il pogrom, che lui definisce un “Evento.” Come gli episodi del “Cigno Nero” che occasionalmente affliggono i mercati finanziari, sviluppi imprevedibili, inaspettati e incomprensibili che possono far crollare il prezzo di azioni e di asset, nessuno vede arrivare un “Evento”, spiega Lévy, “né i suoi silenziosi sussulti.”  Ma una volta che un “Evento” si manifesta, cambia violentemente e bruscamente il futuro, facendo a pezzi i preconcetti che abbiamo e che ci danno conforto e un certo grado di sicurezza. Per gli ebrei, sia in Israele che all'estero, il 7 ottobre ha segnato una rottura drammatica con il concetto di “Mai più” che aveva prevalso sin dalla fine degli anni '40, quando il popolo ebraico emerse dalla Shoah ancora vivo e ottenne l'indipendenza nella nostra patria ancestrale. Nei decenni successivi, abbiamo raccolto sia orgoglio che vigore dalle Forze di difesa israeliane nella loro spettacolare protezione del Paese contro una serie di invasioni da parte di eserciti arabi, così come dalle loro spettacolari operazioni speciali, in particolare il salvataggio di ostaggi all'aeroporto di Entebbe in Uganda nel 1976 (riesco ancora a sentire le urla di gioia dalla cucina della casa londinese dei miei nonni quando mio nonno prese il giornale e lesse il titolo, precipitandosi nella stanza dove io e mio fratello stavamo dormendo per dare la notizia).

Il 7 ottobre è stato esattamente l'opposto. Abbiamo guardato con incredulità, con un senso di nausea nel cuore, mentre gli stupratori e gli assassini di Hamas si facevano strada in Israele, sfondando un confine che pensavamo fosse impenetrabile. Improvvisamente, Israele sembrava piccolo come in realtà è e le IDF un'ombra di ciò che avevamo creduto che fossero. Secoli di sofferenza ebraica si sono fusi in un momento, come se i cosacchi e gli Einsatzgruppen nazisti stessero viaggiando nel nostro tempo, unendosi agli eserciti arabi che avevano fallito più e più volte negli otto decenni precedenti nel cacciare gli ebrei in mare. Quella ripugnante ambizione era suonata, fino a quel giorno, come uno slogan vuoto coniato da eterni perdenti.

Ora, quella tra gli stupri, le mutilazioni, le case in fiamme e varie altre crudeltà, sembrava la nostra nuova realtà. Lévy dice, e sono d'accordo con lui, che non ha mai pensato seriamente che Israele si trovasse di fronte all'annientamento in quella terribile mattina. Ma, aggiunge, c'è quello “spazio geosimbolico che non è meno influente nel determinare come le persone si trovano nel mondo”, uno spazio in cui il realismo politico e le sue elaborazioni vengono dislocati dalla paura e dalla memoria. “Il 7 ottobre”, scrive, “segna l'allineamento, in peggio, di Israele con la diaspora.”

Molto più tardi, rivela il suo amore per “questo piccolo mondo di persone bloccate sulla minuscola striscia di terra che hanno finalmente ricevuto, tre quarti di secolo fa, lasciate lì da un Occidente e in generale da un mondo bagnato dai fiumi di sangue ebraico versati nel torrente dei secoli.”

Non è l'unico ebreo a provare un amore così intenso, né l'unico ebreo consumato dalla paura persistente di vivere in un mondo in cui quella piccola striscia di terra non si chiamerà più Israele. Come ho detto, Lévy sta scrivendo qui di un bersaglio mobile, e molto è accaduto da quando ha presentato il suo manoscritto, procurando sia dolore che soddisfazione in egual misura.

Dolore per quanto Israele sia diventato diviso internamente, quando invece sarebbe dovuto essere unito; dolore per la sorte degli ostaggi rapiti da Hamas, molti dei quali ora sono morti e molti dei quali ancora gridano di essere salvati dalle fetide profondità di Gaza; dolore per la rinascita globale di un antisemitismo, quello che Lévy chiama la “Bestia”, che impiega Israele come porta d'accesso per attaccare e diffamare tutti gli ebrei ovunque, e che nega in tempo reale, come documenta Lévy, la verità di ciò che è accaduto il 7 ottobre; soddisfazione per il modo in cui Hamas è stata, secondo i resoconti dei suoi stessi comandanti, indebolita e decimata; soddisfazione per i colpi umilianti inferti all'Iran e ai suoi surrogati, in particolare Hezbollah, attraverso una serie di omicidi e di operazioni audaci, come i cercapersone e le radio portatili che sono esplose nelle tasche dei terroristi di Hezbollah in tutto il Libano durante la scorsa settimana.

Lévy parla a nome di tutti noi quando scrive che “la morte di civili a Gaza non è un massacro, e non è certamente un genocidio.”  Sostenere il contrario è, dichiara, “un regalo agli assassini di bambini di Hamas, e un'aggiunta alla miseria del mondo.”                                                                                                 Il libro di Lévy è, ovviamente, una prima bozza di una storia ancora in fieri. Non sappiamo con certezza dove ci porterà quel viaggio, e non possiamo escludere la possibilità di un altro “Evento”, con tutto il trauma che porterà in quel momento, e tutto l'odio che seguirà contro di noi.

Ricordiamo, quindi, la cartolina che Sigmund Freud inviò da Roma a uno dei suoi amici: una foto dell'Arco di Tito sul davanti, con le sue incisioni su pietra dei soldati romani che saccheggiano il Tempio di Gerusalemme, e sul retro il semplice messaggio scritto a mano: “L'ebreo sopravvive!”

Perché sopravvivere è ciò che facciamo, e lo facciamo senza piegarci.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate