Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/09/2024, a pag. 1/I, il commento di Paola Peduzzi dal titolo "Vincere la pace".
Paola Peduzzi
Nel secondo episodio di “The Zelensky Story”, un documentario in tre puntate diretto da Michael Waldman, ci sono le immagini dell’unico incontro che il presidente ucraino ha avuto con Vladimir Putin. Era il 9 dicembre del 2019, il presidente francese Emmanuel Macron aveva invitato all’Eliseo Angela Merkel, allora cancelliera tedesca, Zelensky e Putin per rilanciare gli accordi di Minsk, firmati nel 2015, che avevano avuto soltanto l’effetto di “congelare” il conflitto in Ucraina – cioè di farcelo dimenticare. Si erano visti tutti e quattro, poi Zelensky era stato fatto uscire dalla stanza – “li guardavamo da uno schermo”, dice un’intervistata – e si erano riuniti per la conferenza stampa finale.
Zelensky dice che c’è stata una lunga conversazione ma non si sono raggiunti obiettivi comuni, c’è ancora molto da fare, molto che si “deve fare”. Putin dice che il conflitto è una questione interna ucraina, le parti si devono mettere d’accordo tra loro, “è molto semplice da capire”. L’incontro finisce, si alzano in piedi, Macron e Merkel vanno intorno a Putin, che parla e indica Zelensky, che è rimasto dall’altra parte del tavolo, si chiude il bottone della giacca, si guarda intorno, sembra molto più giovane di adesso, più magro, più a disagio – è da solo. Quell’isolamento è durato fino al 24 febbraio del 2022.
Poco dopo, nel documentario, Waldman chiede a Zelensky: cosa pensi ci sia nella testa di Vladimir Putin? “Ho avuto un incontro con lui, un lungo incontro, nel dicembre del 2019 in Francia – dice il presidente ucraino – Non si tratta di parlare di umanità o no, è che ci sono persone che semplicemente fanno il loro lavoro. Senza emozioni. Senza… è come gli assassini. E’ solo un lavoro da fare. Qual è il problema? E’ che gli piace, gli piace moltissimo”. Nel documentario, che racconta la vita di Zelensky e la sua trasformazione da comico e attore a presidente di guerra, spesso in parallelo compare Putin, com’è cambiato lui, come è passato da neopremier nella platea dello spettacolo di satira in cui c’era Zelensky a ridere delle battute e a dire che la qualità migliore dei comici è l’ottimismo, al leader che fa il suo lavoro come se fosse un assassino – un leader assassino. Zelensky continua la sua analisi su Putin: “Per me questo lavoro è parte della mia vita, amo l’Ucraina, voglio la pace, voglio che questo periodo resti un ricordo, voglio naturalmente che le persone mi amino e abbiano rispetto per me, e basta. Ma si tratta comunque di una parte della mia vita. Per Putin tutto questo, tutta questa guerra è la sua vita”.
Da qui in poi la versione colorata, allegra, “rock ‘n’roll” del documentario e della vita di Zelensky scompare, restano gli amici e i collaboratori che lavoravano con lui quando faceva entertainment, resta sua moglie Olena che c’è da sempre, ma tutti cambiano faccia e parole: s’avvicina la guerra, la retorica di Putin diventa esplicita e aggressiva, ma nessuno voleva crederci. L’ex premier britannico Boris Johnson racconta di aver chiesto a Zelensky se secondo lui Putin stesse bluffando, Zelensky gli aveva detto: non lo so, tu cosa pensi? L’ex ministro della Difesa britannico Ben Wallace racconta la sua visita a Mosca, tredici giorni prima dell’invasione su larga scala, l’incontro con il suo omologo, Sergei Shoigu, che con tutto il comando della Difesa russa gli aveva detto: non invaderemo l’Ucraina. Probabilmente proprio nella stanza sopra di noi, dice Wallace, c’erano già le mappe dell’attacco. Zelensky stesso minimizzava, non voleva creare il panico, dicono ancora oggi i suoi collaboratori, ma era stato molto criticato e accusato di non aver preparato gli ucraini, di aver creduto anche lui di poter convincere Putin, come tutti.
Dell’inizio della guerra, Zelensky che resta a Kyiv, chiede soltanto che continui a funzionare internet perché deve collegarsi con il mondo e mostrare che cosa stanno facendo i russi, della resistenza sua e degli ucraini sappiamo già tutto, ma ogni volta che esce un documentario che racconta quelle prime settimane, come “20 giorni a Mariupol”, le immagini dei bombardamenti e delle colonne di carri armati russi con l’oscena Z disegnata a mano restano e resteranno sconvolgenti. Per la loro efferatezza, perché erano e sono bombe indiscriminate e ingiustificate. C’è la telefonata tra Macron e Zelensky, ripresa all’Eliseo, tredici ore dopo l’inizio dell’invasione: il presidente francese fa un po’ di domande, i russi sono ovunque, Kyiv è circondata, nessuno è al sicuro: “E’ chiaro, è guerra totale”, Zelensky conferma.
La scoperta dei cadaveri a Bucha, fuori Kyiv, la scia di sangue, torture, esecuzioni e saccheggi lasciata dai russi cambia di nuovo tutto: i negoziati che pure erano in corso perdono di significato, è l’ennesimo bluff, Zelensky ha già gli occhi più piccoli e infossati, i vestiti da guerra, va negli ospedali, tra le macerie, ai funerali, e chiede aiuto agli alleati. Non è più isolato come nel 2019: era in Normandia a giugno, per la celebrazione del D-Day, i veterani gli dicono che è il loro eroe, lui dice: senza di voi nessuno di noi sarebbe qui. Vinceremo la pace, gli dicono.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@ilfoglio.it