Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/09/2024, a pag. 1/I, l'analisi di Paola Peduzzi dal titolo "L’embargo inglese".
Paola Peduzzi
“Con o senza le armi britanniche, Israele vincerà questa guerra e garantirà un comune futuro sicuro”, ha concluso Benjamin Netanyahu, premier israeliano, un thread su X in cui ha definito “vergognosa” la decisione del governo di Londra di sospendere la vendita di alcune armi a Israele. David Lammy, ministro degli Esteri britannico, ha annunciato ai Comuni lunedì pomeriggio che il Regno Unito ha sospeso le licenze per i componenti di jet, elicotteri e droni che possono essere utilizzati nel conflitto a Gaza, un totale di 30 licenze su 350. Si tratta di una decisione non rilevante dal punto di vista militare e logistico – il Regno Unito contribuisce allo 0,02 per cento delle importazioni di armi di Israele – ma dal grande peso politico, ancor più perché resa pubblica nel giorno dei funerali di sei ostaggi giustiziati da Hamas poco prima che fossero liberati dalle forze israeliane.
Lammy, astro nascente dell’ultimo governo di Tony Blair che ha lasciato la politica per tornare a fare l’avvocato e battersi per la giustizia sociale ed è stato nominato ministro degli Esteri a luglio in un governo in cui legge e regole sono stati per molti una professione (a partire dallo stesso premier Keir Starmer), ha detto ai parlamentari che la decisione è stata presa “con dispiacere e non con rabbia”, si è nuovamente descritto come un “sionista liberale e progressista”, e ha citato alcuni precedenti: l’embargo di petrolio e armi a Israele voluto da Margaret Thatcher durante la guerra in Libano nel 1982; la sospensione di cinque licenze militari da parte del governo di Gordon Brown nel 2009. Alcuni media hanno ricordato che la decisione britannica non è isolata, visto che anche Italia, Spagna, Canada, Belgio e Paesi bassi hanno rivisto le loro esportazioni di armi verso Israele.
Lammy insomma sapeva che l’annuncio era controverso e ha cercato di circostanziarlo il più possibile, aggiungendoci un’aria addolorata: la decisione è stata imposta dalle conclusioni di un’inchiesta che era già stata aperta dal governo precedente – l’ex ministro degli Esteri David Cameron aveva scelto di non renderne pubblici i risultati – e che ha verificato il fatto che Israele potrebbe aver commesso “una violazione grave della legge internazionale umanitaria” nel trattamento dei prigionieri palestinesi e nelle restrizioni di cibo e medicinali ai civili a Gaza. Si tratta quindi di un processo che lo stesso Lammy ha definito “quasi legale”, al quale il governo non si può sottrarre – è la stessa logica che, secondo la spiegazione che hanno dato alcuni commentatori, come George Eaton sul New Statesman, ha determinato la scelta del governo Starmer, a fine luglio, di non intervenire nella richiesta da parte del Tribunale penale internazionale di spiccare un mandato di arresto contro Netanyahu, il suo ministro della Difesa Yoav Gallant e tre leader di Hamas (due sono stati uccisi, resta Yahya Sinwar). La decisione della Corte internazionale è imminente, dicevano alcune indiscrezioni ieri, ma va comunque ricordato che il governo precedente guidato da Rishi Sunak aveva detto che si sarebbe opposto al mandato di arresto ma non ha mai depositato ufficialmente la richiesta: tecnicamente insomma la posizione del Regno Unito non è cambiata.
Il governo Starmer sottolinea che l’alleanza con Israele non è in discussione e non lo sarà (siamo “un alleato incrollabile”, ha ribadito Downing Street, mentre il ministro della Difesa, John Healey, ha detto che questa decisione “non ha alcun impatto militare” e che “non si tratta di un gesto politico, ma del rispetto delle leggi”) e porta come prova l’intervento britannico ad aprile per contrastare il primo attacco militare diretto della Repubblica islamica d’Iran contro Israele. Ma le rassicurazioni di Londra e nemmeno la determinazione con cui questo governo vuole porsi nel mondo come difensore delle regole del diritto – della convivenza – internazionale sono sufficienti per Israele, che si sente tradito da un alleato di cui si fida, per di più in uno dei giorni più tragici – e disperati – di questi undici mesi di strazio e guerra. Il rabbino capo inglese, Sir Ephraim Mirvis, ha denunciato su X il tradimento: “Perché il governo abbandona Israele? Vuole che Hamas vinca?”, e Boris Johnson, ex premier britannico, assieme ad altri conservatori ha ripreso le stesse parole. C’è anche un’altra conseguenza ancora da decifrare: Robert Peston, uno dei giornalisti più affidabili del Regno Unito, ha detto che alcune sue fonti a Washington gli hanno detto che anche la Casa Bianca è rimasta interdetta dalla decisione britannica, “ci avevano assicurato che non lo avrebbero fatto”.
Poi ci sono quelli che pensano che questo embargo parziale sia troppo piccolo e troppo in ritardo. Jeremy Corbyn, ex leader del Labour accusato di antisemitismo e poi epurato dalla direzione starmeriana, ha formato un’alleanza ai Comuni assieme ad altri quattro parlamentari eletti come indipendenti (avevano battuto i candidati laburisti nelle loro circoscrizioni alle elezioni di luglio) con un unico obiettivo definito “pro Gaza”, cioè introdurre un embargo completo di armi per Israele. Questi parlamentari sono anche filoputiniani.
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