I difficili rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace
Analisi di Ugo Volli
Testata: Shalom
Data: 02/09/2024
Pagina: 1
Autore: Ugo Volli
Titolo: I difficile rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace

Riprendiamo da SHALOM online l'analisi di Ugo Volli dal titolo "I difficile rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace".

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Ugo Volli
Egitto-Israele: pragmatismo al vertice | ISPI
Dalla pace con Sadat nel '79 fino ai nuovi accordi con Al-Sisi, tra Israele ed Egitto c'è sempre stata una pace fredda con difficili accordi anche di tipo commerciale. Oggi il paese dei faraoni si offre come mediatore nelle trattative con Hamas, ma è davvero così? 

La decisione del gabinetto e le trattative

Il consiglio di gabinetto – l’organo ristretto del governo israeliano che ha la responsabilità della conduzione della guerra – su proposta del primo ministro Bibi Netanyahu e con il solo voto contrario del ministro della difesa Yoav Gallant, ha stabilito giovedì notte che anche nel quadro di un possibile accordo di cessate il fuoco, le forze armate di Israele dovranno restare a presidiare il “corridoio Filadelfia”, cioè il breve tratto di confine (14 km) che separa Gaza dall’Egitto. È una decisione importante, perché proibisce all’equipe negoziale che ricomincia oggi a Doha per l’ennesima volta le trattative per una tregua, di accettare una delle tre richieste centrali di Hamas, lo sgombero di Israele dal corridoio Filadelfia. Le altre due pretese, altrettanto problematiche, sono la possibilità per gli sfollati di rientrare nella parte settentrionale della Striscia senza subire alcun controllo, il che evidentemente permetterebbe ai terroristi di insediarvisi di nuovo con le loro armi, e l’impegno di Israele a non riprendere le operazioni belliche alla fine della tregua. Sembra che vi sia aggiunta di recente la richiesta del capo dei terroristi Sinwar di una garanzia per la sua vita.

Da dove vengono le armi di Hamas

Chi ha ragionato in questi 11 mesi sulla forza imprevista di Hamas e sulla sua capacità di continuare a combattere nonostante l’autodifesa di Israele e il blocco imposto da molti anni sull’importazione di materiali di uso bellico, chi si è interrogato sulla consistenza dei grandi arsenali di armi e in particolari di missili che si continuano a scoprire, sull’addestramento dei terroristi da parte di istruttori iraniani, sulle macchine sui carburanti e sui prodotti necessarie per scavare tunnel più lunghi della metropolitana di Londra, si è certamente chiesto da dove tutte queste notevolissime risorse militari provenissero. La risposta è doppia: in parte minore questo materiali sono importati con gli aiuti umanitari: ancora pochi giorni fa si sono scoperti esplosivi nascosti fra gli aiuti alimentari dell’Onu. Ma la maggior parte viene dal contrabbando nel corridoio Filadelfia, cioè dall’Egitto.

L’Egitto e il contrabbando

Si tratta di un punto molto delicato. L’Egitto ha sempre sostenuto di combattere questo contrabbando, e ha molto propagandato alcune operazioni di distruzione dei tunnel da cui esso era condotto. Ma di fatto si è comportato in maniera opposta, favorendo di nascosto l’importazione di armi. Molti si sono sorpresi vedendo che Al Sisi si è opposto ferocemente alla presa israeliana del corridoio; ma si è visto presto il perché. Oltre 80 tunnel di contrabbando sono stati scoperti nella zona, alcuni abbastanza grandi da far passare camion.. Le armi vengono da lì, e così il cemento, gli esplosivi, gli esperti iraniani e a quanto sembra anche cinesi. Ovviamente Hamas vuole che l’esercito di Israele se ne vada dal Filadelfia proprio per poter riprendere il contrabbando di armi che è vitale per continuare la guerra (si dice che vi sono carichi interi di missili nascosti fra i beduini del Sinai). La meraviglia è che l’Egitto lo sostenga. In teoria, si dice, Hamas è un braccio di quella stessa Fratellanza Musulmana di cui il generale Al Sisi si è liberato con un colpo di stato nel 2013 e quindi dovrebbe essere un nemico del regime attuale. Ma sono passati 10 anni, si dice che perfino i parenti del dittatore abbiano parte nel grande business economico del contrabbando militare, e molti funzionari del regime vi prendano parte. Ma soprattutto vi sono ragioni politiche per questo atteggiamento. Il confine fra Israele ed Egitto è lungo 266 chilometri lungo il Negev e negli ultimi 45 anni non vi sono state difficoltà in questo, anche se non sono mancati alcuni incidenti provocati dalla parte egiziana, come il lancio di missili su Eilat o l’assassinio di due militari israeliani di guardia qualche anno fa. Perché dunque Al Sisi non vuole assolutamente la sorveglianza israeliana degli ultimi 14 chilometri che sono il corridoio Filadelfia? Le ragioni sono diverse. Da un lato, nonostante la pace firmata da Begin e Sadat nel 1979, che costò la vita a quest’ultimo, Israele è sempre nella psicologia collettiva egiziana il nemico storico contro cui l’esercito egiziano combatté nelle guerre nel 1948, ‘56, ‘67. ‘73, sempre perdendole. A differenza dei più recenti “accordi di Abramo”, la pace con l’Egitto è sempre stata “fredda” senza aperture commerciali o turistiche: la “normalizzazione” è sempre deplorata, la propaganda antisemita è sempre diffusa fra le masse e anche ai più alti livelli. L’esercito dell’Egitto, nonostante le enormi difficoltà economiche del paese, ha condotto un piano di riarmo imponente, comprando aerei in Cina, sottomarini in Germania, migliaia di carri armati in Usa. Oggi in Medio Oriente è il meglio armato dopo Israele e Iran; la speranza di una rivincita è sempre sottintesa, anche i dirigenti egiziani sanno di non poterla evocare. Al Sissi insomma sembra voler ripetere certe mosse della Turchia. Sunnita sì, potenzialmente nemico dell’Iran, ma senza nessuna simpatia per Israele.

Perché restare sul confine

In questo quadro la sopravvivenza di Hamas, soprattutto se oltre che dall’appoggio iraniano dipende anche dalla complicità egiziana al contrabbando di armi, è una cosa che al vertice egiziano evidentemente non dispiace. E questa è anche la ragione per cui Israele fa bene a non fidarsi e a non cedere all’illusione di una delega all’Egitto di un passaggio così essenziale alla sua sicurezza come il corridoio Filadelfia. La divisione che si è avuta negli ultimi mesi fra il vertice militare e quello politico su questo tema deriva anche dall’esperienza dell’incapacità di barriere elettroniche e delle forze internazionali di garantire la sicurezza del paese, come si è visto purtroppo il 7 ottobre, ma anche prima con Unfil in Libano, con le forze di interposizione dell’Onu fra Israele ed Egitto che si sono squagliate nel 1973, le numerosi operazioni a Gaza lasciate a metà perché lo stato maggiore assicurava che si fosse restaurata la mitica “deterrenza”. Insomma, nonostante l’immensa fiducia che tutto il paese ha nell’impegno e nella dedizione delle forze armate, fra i politici della maggioranza e nei media c’è diffidenza sulla concezione strategica dello stato maggiore.

Sono davvero mediatori?

Vi è un dato in più da tener presente, Le trattative per il cessate il fuoco non sono condotte direttamente fra Israele e Hamas o il suo burattinaio Iran: fra le due parti si interpone da un terzetto di “mediatori”, gli Usa, il Qatar e l’Egitto. L’amministrazione americana certo non vuole la distruzione di Israele, ma nemmeno la sua vittoria che sconfesserebbe la politica di Obama, Biden e se vincerà di Harris di accordo con l’Iran. Gli Usa oltretutto fanno il possibile per estendere questo modo di vedere all’interno di Israele, sia nell’ambito politico che negli apparati di sicurezza, fino influenzare fortemente la delegazione negoziale. Il Qatar è il più diretto protettore di Hamas, ne ospita i dirigenti e ne gestisce la propaganda con la sua rete Al Jazeera. Ma anche l’Egitto, per i motivi appena visti, non è certo neutrale nei confronti di Israele. Dunque, come accade con le organizzazioni politiche internazionali (per esempio l’ONU) e le corti come quella dell’Aja, Israele deva difendersi un ambiente sostanzialmente ostile. Quando ci si interroga sulla difficoltà del governo israeliano di prendere decisioni e iniziative forti, bisogna pensare che resistere a queste pressioni è un compito difficilissimo, ma essenziale per il futuro del paese.

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