Riprendiamo da LIBERO del 02/09/2024, a pag. 1/2, con il titolo "Altri sei ostaggi assassinati da Hamas con proiettili alla testa, ma accusano Netanyahu" la cronaca di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
«Il cuore di un’intera nazione è andato in frantumi». Le prime parole di cordoglio arrivano dal presidente di Israele, Isaac Herzog. E, probabilmente, basterebbero quelle. Ieri mattina. Sono circa le sei a Roma e le sette a Gerusalemme, iniziano ad arrivare le conferme. Sì, quei sei corpi che l’Idf, sabato, giusto una manciata di ore prima, ha recuperato nei tunnel sotto Rafah, in quei cunicoli interrati della Striscia che sono le gallerie del terrorismo, appartengono ad altrettanti ostaggi del pogrom del 7 ottobre.
Per identificarli, i militari con la stella di David sulla divisa, devono portarli in Israele.
Li hanno uccisi, i miliziani di Hamas, così diranno le autopsie di lì a pochissimo, sparando loro addosso colpi di arma da fuoco a bruciapelo. Quanti, vai a sapere. Quando, in un lasso di tempo che va, al massimo, avanti di 48 ore. Dove, alla testa e al corpo. Hamas ci prova, subito, a scaricare la colpa: l’emittente panaraba Al Jazeera rilancia le dichiarazioni di Izzat al Rishq, un alto funzionario di Gaza, che accusa Israele e i suoi attacchi aerei. Ma la verità è facilmente riscontrabile dai referti dei medici legali.
Referti che Herzog non ha ancora visto quando parla al suo popolo: però ha visto le foto, quelle che da quasi undici mesi girano sui social e sui giornali, sui cartelloni delle manifestazioni e nei programmi tivù. I volti sorridenti di sei ragazzi, giovani, belli, liberi, che davanti all’obiettivo nemmeno ci hanno pensato, chissà di quanto prima erano quegli scatti. Ori Danino. Alex Lubnov. Almog Sarusi. Eden Yerushalmi. Carmel Gat. Hersh Goldberg-Polin (che, tra l’altro, ha anche il passaporto americano ed è tra i rapiti più conosciuti in Israele, una sorta di simbolo di quel che è successo: quella mattina aveva provato a mettersi al sicuro in strada, l’avevano preso, nell’attacco aveva perso un braccio, era comparso mutilato in un video, durante la prigionia, in chi chiedeva di tornare a casa). Alcuni di loro erano in lista per essere rilasciati.
Sei ragazzi catturati nella retata di Hamas, in quel maledetto giorno nero dell’autunno scorso, al Nova fest del Negev, a Re’im. È un incubo che ritorna. Riecheggiano, sono sufficienti pochi attimi, gli spari dei filmati, le urla, i racconti delle torture, l’orrore di una furia che potranno aver dimenticato le piazze propal di mezzo mondo (quello occidentale) ma che di certo non hanno scordato i famigliari, gli amici, i conoscenti degli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
Si sveglia così, Israele. Con le parole del suo presidente, le ultim’ora che scorrono nei titoli dei tigì (tre agenti israeliani uccisi in Cisgiordania, ad Hebron, al valico di Tarkumiya, nel territorio dell’Anp di Abu Mazen; l’attentatore «eliminato sulla scena» dopo che l’esercito circonda casa sua), il fronte delle proteste che travolge, di nuovo, il governo di Benjamin Netanyahu. «Vi prenderemo, regoleremo i conti», dice lui. «Non ci aspettiamo che il terrorista Sinwar restituisca gli ostaggi, ci aspettiamo che il premier israeliano faccia di tutto per riportarli a casa», gli risponde il Forum delle famiglie degli ostaggi.
Due parenti dei ragazzi di ieri rifiutano addirittura di parlare al telefono con Netanyahu; in un’altra chiamata, quella ai Lubnov, il premier ammette: «Mi dispiace e vi chiedo perdono per non aver potuto portare a casa Sasha vivo»; in serata a Tel Aviv si organizza una mobilitazione di protesta davanti al ministero della Difesa (centinaia di attività chiudono le serrande per dare manforte) e per oggi si annuncia uno sciopero generale con l’Histadrut, uno dei principali sindacati dei lavoratori nel settore pubblico d’Israele, deciso ad incrociare le braccia. «Erano vivi», rincarala politica con il leader dell’opposizione di centrosinistra Yair Lapid. Si sta riferendo agli ostaggi deceduti: «Netanyahu e il “gabinetto della morte” hanno deciso di non salvarli. Ci sono ancora rapiti in vita, un accordo è ancora possibile».
Accordo che (lo invocano anche il premier britannico Keir Starmer e papa Bergoglio), in verità, ha il suo principale ostacolo non nelle rivendicazioni dello Stato ebraico, ma in quelle palestinesi (e questo lo ricorda proprio Netanyahu). Infatti, quasi come una reazione istintiva, ancora a ora di pranzo, il “ministero della Sanità” di Gaza (ossia Hamas) si affretta a dichiarare che le vittime del conflitto salgono a 40.738. Un numero assolutamente non riscontrato da fonti terze (cioè imparziali) e l’ennesimo atto di una propaganda che da sempre (non solo dal 7 ottobre) è incentrata sul vittimismo. Però forse, questa volta, almeno in questi termini, non attacca.
«Hamas ha ancora più sangue americano sulle mani», la vicepresidente Usa Kamala Harris condanna «fermamente la continua brutalità di Hamas e così deve fare il mondo intero. La minaccia che rappresenta per il popolo d’Israele e per i cittadini americani in Israele deve essere eliminata e Hamas non può controllare Gaza».
Addirittura Antonio Guterres, il segretario generale dell’Onu, parla della «necessità del rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi e della fine dell’incubo della guerra di Gaza». Ché ormai è chiaro a chiunque, non può esserci la seconda senza il primo.
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