Il numero uno di Hamas dipinto come popstar
Commento di Giovanni Sallusti
Testata: Libero
Data: 31/08/2024
Pagina: 12
Autore: Giovanni Sallusti
Titolo: Il numero uno di Hamas dipinto come una popstar

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 31/08/2024, a pag. 1/12 con il titolo "Il numero uno di Hamas dipinto come una popstar" il commento di Giovanni Sallusti.

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Giovanni Sallusti

Terrorismi» di Guido Olimpio in libreria - Corriere.it
Guido Olimpio: il suo articolo sul Corriere della Sera "Fantasma Sinwar", sembra scritto come una consacrazione di Sinwar, capo dei terroristi di Hamas. Avvolgendolo in un’aurea di intangibilità, quasi di sacralità mediatica. 

"Fantasma Sinwar", miliziano sufficientemente maledetto da essere già, di fatto, prodotto buono per l’industria culturale. La certificazione della metamorfosi compiuta sta nella paginata del Corriere della Sera di ieri, con quella titolazione che rimanda a mitologie spettrali (dove non ne è più niente del sangue, del dolore, della carne lacerata e vilipesa dal capo di Hamas) e l’articolessa di Guido Olimpio che si stende su tutte le colonne, ad avviluppare ulteriormente il protagonista in un’aurea di intangibilità, quasi di sacralità mediatica, testimonianza plastica di una “sottomissione”, per dirla alla Houellebecq, estetica, letteraria, narrativa.
Nessun generale o eroe di guerra israeliano (per tacere del premier Netanyahu, trattato quotidianamente dal nostro sistema dell’informazione come un sadico genocida) ha mai neanche lontanamente avuto un trattamento del genere, e il motivo è presto detto. Nessuno di loro era “prodotto”, anzi dal punto di vista della vendibilità sarebbero stati respingenti: combattenti dell’unica società libera nell’inferno mediorientale, umanità in trincea anche per noi, che ci avrebbe ricondot« to alla nostra responsabilità. Yahya Sinwar, invece, “il macellaio di Khan Yunis”, più o meno la versione contemporanea di Heinrich Himmler, è l’ideale per innescare il brivido dell’esotismo maudit, per titillare il terzomondismo in poltrona della buona borghesia radical, col valore aggiunto, tutto Woke, di essere oggetto di una caccia all’uomo (non diciamo alla bestia perché nessun animale avrebbe immaginato qualcosa come il 7 ottobre) condotta da ebrei. «Se Yahya Sinwar si volta indietro vede la lunga striscia dei predecessori eliminati da Israele uno dopo l’altro. E allora deve guardarsi non solo le spalle. Perché il colpo può arrivare da un drone, da un caccia, da un infiltrato, dal militante».
E tu, senza neanche accorgerti dell’immane slittamento inconscio, ti immedesimi in lui fin dall’attacco del pezzo, te lo raffiguri, fascinoso “fantasma” condannato a guardarsi da ogni parte, eppure in possesso della dote quasi superomistica di sparire, sparire sempre e beffare l’umana tecnologia.
«Si muove con attenzione nei tunnel evitando di utilizzare smartphone», ci informa il sommario al limite dell’encomio, mentre «si alimentano le voci su travestimenti ed esche», il sottosuolo di Gaza come Gotham City e lui come il suo Batman, creatura che aleggia tra leggenda e realtà. Se un lettore particolarmente ostinato non fosse ancora riuscito a rimuovere del tutto il pensiero che si stia parlando del capo di una banda di assassini, stupratori e infanticidi nazi-islamisti, c’è lì apposta l’apparato fotografico. Ecco un bel Sinwar in verticale, abito elegante e camicia bianca, intento a infilare (o estrarre?) una pistola con silenziatore nei pantaloni, qui pare davvero una versione palestinese (dunque accettabile in era politicamente corretta, non un becero suprematista bianco) di James Bond. Sopra, in grande, c’è (come recita la didascalia) “un suo poster a Beirut”, perché il numero uno di Hamas è già una popstar, non importa se della jihad, anzi assicura un’ottima fetta di mercato. Quella della Causa. “I leader possono essere «a tempo», estromessi oppure fatti fuori, senza che la loro scomparsa intacchi la lotta”, prosegue l’articolo, e formalmente è pura descrizione del meccanismo. Tuttavia leggere “lotta” e non “terrorismo antisemita” è più che tranquillizzante, miscela i piani semantici e converte la psicologia, dalla pagina evapora la belva vigliacca che si aggirerebbe nei sotterranei di Gaza camuffata da donna e perennemente circondata da 22 ostaggi israeliani in catene, e prende corpo un guerrigliero in “lotta”, magari contro il Grande Satana, magari contro il capitale, uno sfuggente Che Guevara in kefiah, quindi un equivoco al quadrato, laddove già l’originale stampato sulle magliette era un pluriomicida inveterato.
In ogni caso, il mito cresce: «Si è parlato poi di possibili travestimenti, di mimetizzazioni mescolandosi al grande numero di profughi, al ricorso a mezzi comuni. Cocktail di indiscrezioni inverificabili, alcune messe in giro dai nemici» (che sarebbero sempre i militari e i servizi dell’unica democrazia liberale dell’area, ndr). In questa grande trama sempre strappata dal mistero, compagno di viaggio di ogni eroe romantico che si rispetti, c’è una certezza: «Ha limitato i contatti, lasciando al fratello Mohammed il ruolo di filtro e schermo. Un compagno di fede può tradirti per mille ragioni (soldi, frustrazione, ragioni personali), difficile sia un parente stretto a pugnalarti». È una grande saga shakespeariana di famiglia, di fede, di tradimenti e troni in bilico. Solo, in sottofondo, si odono ancora le urla estemporanee dei decapitati, dei seviziati, dei bruciati vivi.
Ma è un’eco sempre più lontana, vita che imita male la letteratura o, peggio, il giornalismo.

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