Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 28/08/2024, a pag. 1/4, con il titolo "Dopo la seconda notte di attacchi russi, Kyiv promette ritorsioni" l'analisi di Micol Flammini.
Micol Flammini
Che sia una punizione per l’incursione nella regione russa di Kursk o il solito manuale del conflitto di Vladimir Putin contro le infrastrutture civili, l’Ucraina è stata colpita per il secondo giorno di fila da un attacco diretto contro parte del suo territorio: più di ottanta droni e dieci missili (tre Kinzhal, cinque Kh-101, due Iskander) sono stati lanciati contro gran parte del suo territorio e i jet polacchi, dall’altra parte del confine occidentale, hanno trascorso la seconda notte in allerta. La contraerea ucraina è stata pronta e abile, all’abbattimento hanno partecipato anche i caccia F-16 arrivati quest’estate, ma Kyiv non ha ancora la capacità di eliminare tutto quello che i russi lanciano né di fermare ogni attacco che tormenta le notti degli ucraini e mira a distruggere le loro infrastrutture energetiche.
E’ un assaggio dell’inverno, quando il danno alle centrali elettriche si sente di più, o è una minaccia per far capire alle Forze armate dell’Ucraina che se intendono andare avanti nella regione russa di Kursk, o in quella di Belgorod, i civili continueranno a essere presi di mira: il metodo non cambia, serve a sfiancare, a creare una pressione da parte dei civili contro l’esercito per chiedere la fine della guerra. I tentativi di Mosca di costringere gli ucraini alla resa finora sono stati vani e adesso che l’esercito sta portando avanti l’offensiva nel territorio russo c’è ancora meno appetito per concedere a Mosca una pace alle sue condizioni. Kyiv alza la testa e ai due giorni di attacchi russi ha risposto come mai aveva fatto prima: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha promesso una ritorsione e durante un incontro con la stampa ha fatto sapere che il primo missile balistico di produzione ucraina è stato testato con risultati soddisfacenti. Non era mai accaduto che Zelensky, dopo una delle tante notti, albe o tramonti trascorsi al riparo dai missili di Mosca e dai droni dell’Iran promettesse al capo del Cremlino Vladimir Putin una ritorsione. L’Ucraina sente che questo è il momento della svolta, è pericoloso, pieno di criticità. L’operazione Kursk è accompagnata dall’avanzata dell’esercito russo nella regione ucraina di Donetsk, gli ucraini sono costretti a sfollare, la linea del fronte si sposta e Mosca va verso l’occupazione di nuovi territori: un’avanzata lunga, dispendiosa, ma comunque dolorosa per l’Ucraina. Kursk ha insegnato qualcosa di diverso, ha mostrato che l’Ucraina ha energie, ha forze e può mettere in difficoltà Mosca o entrando nel suo territorio, o facendo arrivare le sue armi fino alla capitale. In tutti e due i casi, Kyiv dimostra che il Cremlino non ha un piano di intervento per liberare i suoi stessi territori, per bloccare l’avanzata dei soldati ucraini e non ha le difese aeree per fermare gli attacchi contro Mosca o contro le sue raffinerie, i suoi depositi di armi, i suoi impianti di stoccaggio. Questa consapevolezza non mette in crisi il potere di Vladimir Putin, che è ancora saldo e può contare su una catena di comando dentro all’esercito e sui servizi segreti a lui molto fedele, ma scuote una macchina impostata per portare avanti una guerra lunga, per avanzare rosicchiando territorio, per costringere l’altro a difendersi. Zelensky ha detto che non c’è spazio in questo momento per un negoziato con Putin ed è pronto per presentare agli Stati Uniti, al presidente uscente Joe Biden e ai due candidati alla Casa Bianca Kamala Harris e Donald Trump, una strada per arrivare alla vittoria: nessun passo indietro, Kyiv non cede. L’Ucraina ha alle spalle un inverno di sconforto e di mutamenti. Il cambio ai vertici delle Forze armate, l’uscita del generale amatissimo Valeri Zaluzhny e l’arrivo del non molto amato Oleksandr Syrsky hanno messo in crisi l’umore dei soldati e della popolazione, tanto più che l’arrivo di Syrsky è coinciso con il ritiro da Avdiivka, la prima città caduta dopo Bakhmut, e da cui gli ucraini si sono ritirati in modo confuso e disorganizzato. Adesso Syrsky sta dando prova di avere le idee chiare: non considera la guerra contro Mosca come una questione di difesa, non è più soltanto potenziamento della linea del fronte, ma si fonda sulla consapevolezza che Kyiv non avrà mai a disposizione un pozzo di soldati come quello di Putin, quindi deve agire in modo diverso. La guerra non è più solo lungo il fronte impostato da Mosca, adesso riguarda tutta la regione: i confini tra Russia, Ucraina e Bielorussia sono porosi. Syrsky ieri ha parlato per la prima volta degli obiettivi dell’operazione Kursk, ha detto che Mosca ha inviato a fermare l’avanzata di Kyiv circa trentamila soldati che intendeva mandare in Ucraina. Kyiv aveva osservato i movimenti russi e per prevenirli ha lanciato l’operazione Kursk: ora nella regione controlla 1.294 chilometri quadrati – una porzione di territorio grande quanto quello di Roma capitale – controlla cento insediamenti e ha catturato cinquecentonovantaquattro soldati russi.
Forse per cercare di distrarre gli ucraini dall’est, sul territorio bielorusso in direzione di Chernobyl, Minsk ha schierato i suoi soldati, che difficilmente hanno le potenzialità per attaccare l’Ucraina, ma possono dare fastidio, organizzare incursioni e passare attraverso quel tratto di confine da cui il 24 febbraio si mossero i soldati russi. L’esercito bielorusso è sparuto e con soldati poco motivati, ma ormai da un anno conta sul sostegno e l’addestramento degli uomini che un tempo erano mercenari della Wagner, e deve sottostare agli ordini del dittatore Aljaksandr Lukashenka, sempre ansioso di fare colpo su Putin.
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