Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/08/2024, a pag. 4, con il titolo "«C’è rabbia e voglia di terrorizzare. Fermiamo la minaccia islamista con una mobilitazione culturale»", l'intervista di Alessandra Coppola a Kamel Daoud.
Alessandra Coppola
Colpire con un coltello alla gola, perché? «Una mancanza d’armi alternative, certo, ma soprattutto la rabbia e la volontà di terrorizzare». Kamel Daoud, «figlio della guerra civile algerina», parla di qualcosa che ha visto con i propri occhi, migliaia di volte. L’accoltellamento di Solingen, in Germania, per quanto tragico ne è solo una lontana imitazione. Perché «l’Algeria è stata un laboratorio» dell’ascesa degli estremisti islamici, della loro capacità di insinuarsi nonostante la sconfitta militare.
Un trauma così profondo da rendere afoni. Finché lo scrittore è riuscito a metterlo su carta, vent’anni dopo, nel romanzo Houris, come le vergini del Paradiso, appena uscito a Parigi per Gallimard. Il tentativo di riparare all’amnesia collettiva di un Paese costretto dal regime — anche per legge — a celebrare incessantemente la gloria della guerra d’indipendenza dalla Francia e a nascondere sotto il tappetto la vergogna del decennio nero, 1992-2002: duecentomila morti e una violenza che perdura fino ad oggi.
La protagonista Aube, come alba, sgozzata da un barbuto, sopravvissuta senza voce, racconta con la sua lingua interiore, il francese della letteratura e della libertà, la sua vicenda e quella di un popolo intero sfregiato. L’ultima parte del romanzo è intitolata Coltello, come il libro composto dopo l’attentato da Salman Rushdie, scrittore nemico dei fondamentalisti e non a caso molto amico di Daoud.
Che cosa vuol dire l’uso di quest’arma?
«Ho ascoltato prima di scrivere testimonianze di donne superstiti, mi ha colpito una che diceva: quando mi hanno fermata, ho cominciato a correre, sapevo che mi avrebbero sparato alla schiena, ma preferivo essere colpita dalle pallottole che morire sgozzata. Perché è una mutilazione, una morte dopo la morte. Quando sono arrivato da giornalista sul luogo del massacro di Had Chekala (villaggio nell’entroterra di Orano, sterminato nel capodanno del 1997, ndr) ho visto cadaveri fatti a pezzi. Uccidere è togliere la vita, mutilare è disonorare il corpo. C’era una rabbia oltre la violenza. E poi la volontà di creare il terrore. Gli islamisti algerini lasciavano sempre un testimone perché diffondesse la paura».
Che cosa gli occidentali devono ancora capire di questa rabbia?
«Che si può perdere un Paese molto facilmente, nessuna democrazia esclusa. Due: i movimenti fascisti, totalitari, che non hanno alcun rispetto della vita umana, bisogna combatterli, non bisogna cercare di giustificarli. Tre: l’islamismo è una minaccia mondiale, non solo per i musulmani, che ne pagano certo il prezzo più alto».
In che modo combatterli?
«Ci vorrebbe una mobilitazione culturale profonda: gli islamisti attaccano attraverso i media, la cultura, la scuola; non bisogna lasciarglielo fare. Da ragazzino ho letto La macchina del tempo di Wells che immagina due umanità: gli ingenui pacifisti in superficie e i feroci barbari nella viscere della terra, che emergono per cibarsene. Bisogna che l’Occidente non sia il nutrimento della barbarie».
Il mercato tedesco, la moschea francese: colpi di coda? O dobbiamo aspettarci ancora attentati?
«Gli islamisti hanno una visione messianica mondiale. Chi non legge l’arabo non lo capisce, ma è un progetto di Stato totalitario universale. Non basta concedere una moschea, non è un pezzetto che vogliono».
La causa palestinese spesso è usata a pretesto?
«Io provo profondo orrore e dolore per quello che sta succedendo a Gaza, ma anche per chi pensa all’annientamento di Israele, e per la gente che ha delle posizioni radicali restando a casa. Quanti dei pro palestinesi vanno in Palestina ad aiutare?».
Lei è stato oggetto di una fatwa e anche questo libro le sta provocando accuse di blasfemia. Per attaccarla la chiamano «ebreo»...
«Certo, ebreo, traditore. Quando si è liberi siamo sempre dei traditori. Io ammiro i clandestini che salgono sulle barche per raggiungere l’Europa: loro lo sanno da che parte sta la libertà».
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