Riprendiamo da LIBERO di oggi, 23/08/2024, a pag. 12 con il titolo "Kamala ha una gioiosa macchina da guerra. Chissà se farà la fine di quell'altra qua in Italia" il commento di Giovanni Sallusti.
Giovanni Sallusti
La gioiosa macchina da guerra di Kamala viaggia a pieno regime, e non è detto che sia un male per Donald Trump. Se il trumpismo nasce anche come reazione all’abisso percettivo tra il racconto della bolla mediatica costiera (New York Times e Washington Post su tutti ma pure, a un oceano di distanza, la Silicon Valley pre-Musk) e la realtà profonda della nazione americana, il trionfalismo compulsivo per quella che fino a un mese fa era la vicepresidente più scialba della storia potrebbe respingere ulteriore elettorato medio, “dimenticato”, normale.
La parola d’ordine è proprio quella, “joy”, che non è il primo sentimento ad attecchire nella classe lavoratrice americana davanti al programma tutto tasse & Wokismo by Kamala (leggi Obama), ma alla convention di Chicago non conta la realtà, conta la sua rappresentazione. A lanciare il claim è stato l’ex presidente Bill Clinton, vecchia classe dirigente democratica ridotta a propagandare amenità ri-postabili come questa: «Abbiamo bisogno di Kamala Harris, la presidente della gioia, per guidarci!». Ha rincarato la dose una leader molto più riconosciuta dai progressisti millennial, la stella televisiva Oprah Winfrey: «Scegliamo Kamala, scegliamo la gioia!». Da lì, la consegna è ruzzolata lungo tutta la filiera editorial-patinata, per cui la kermesse democratica è diventata ipso facto il luogo della gioia. Ovviamente, il copia&incolla è arrivato giù giù fino alla periferia dell’impero, fino alle succursali delle succursali: i giornaloni italici.
E allora La Stampa arruola Carlo Invernizzi Accetti, politologo con cattedra alla Columbia University, che riesce a tacitare qualunque orrore di sé ed attaccare il suo pezzo come segue. «Un registro emotivo alquanto inusuale per la politica odierna permea la campagna elettorale di Kamala Harris: la gioia». Mentre quelle che muovono Donald Trump sarebbero le spinoziane «passioni tristi», la paura e la rabbia. Chi scrive giura di aver udito analisi meno manichee al bar sotto casa. Ma non su Repubblica, dove il direttore Maurizo Molinari ci mette una lenzuolata di due pagine per arrivare al solito punto: «Sono i cartelli dei delegati a descrivere l’energia di un popolo democratico che si riconosce nella definizione di Kamala gioiosa combattente». Segue retorica estenuante sull’umanità dem meravigliosamente multietnica, interclassista e sorridente, mentre gli elettori di Trump, come è noto, sono tutti suprematisti bianchi, proletari sudaticci e soprattutto mai, mai gioiosi (quegli ispanici che votano in massa repubblicano, a partire dalla Florida, e quel ceto medio-basso afroamericano che si è da tempo spostato verso The Donald non esistono, per quelli come Molinari, mettono troppa tristezza). Il Corriere della Sera, per parte sua, individua gioiosamente con lo scrittore Paolo Giordano «il filo nascosto della convention»: gli «Stati Uniti delle Madri», altro che i vetusti, reazionari, tautologicamente patriarcali “padri fondatori”. Giuriamo, è davvero uscito in pagina. Nessuna testata, invece, è rimasta particolarmente turbata dal colpo letteralmente sotto la cintola di Barack Obama a proposito della «strana ossessione di Trump per le dimensioni delle folle».
Ma, si sa, il sessismo e il body-shaming non esistono, se praticati da chi li ha inventati come paraventi ideologici.
Un altro fronte su cui indugia parecchio la gioiosa macchina da guerra kamaliana è quello dei sondaggi. Con una lievissima postilla: urge citare e rilanciare, molto meglio se con piglio da geopolitici esperti, solo ed esclusivamente le rilevazioni gioiose. Di modo che lo storytelling automatico diventi (i media italiani, anche qui, seguono a ruota) «Kamala è davanti!». Sì, secondo l’ultimo dato di Morning Consult, di YouGov e del Washington Post. No, secondo Fox News e un Rasmussen Report ripetuto l’8,l’11, il 14 e il 20 agosto. Promemoria: Rasmussen è quello che si avvicinò più alla realtà nel 2020 e nel 2016 (quando era irriso dall’unanimismo pro-Hillary). Per quel che vale (non poco) i bookmakers ieri dicevano Trump 53%/ Harris 46%. In ogni caso, è importante quel che la gioiosa macchina non dice: ora siamo nel pieno del momento-Kamala. Verosimilmente, la vicepresidente ha saturato le preferenze “naturali”, quelle raggiungibili per militanza o empatia personale. Chiusa la convention, inizia la caccia agli indecisi, ai moderati, al consenso contendibile. Per lo stesso New York Times, ad esempio, il 43% degli intervistati in tre Stati-ballerini (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin) giudica la Harris «troppo liberal». Sara dura convincerli a colpo di «joy».
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