Riprendiamo da LIBERO di oggi 23/08/2024, a pag. 1/13, con il titolo "Trump e il vetro antiproiettile, così hanno ingabbiato la libertà", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Trump parla dietro un vetro antiproiettile No, non è tutto normale. Né dobbiamo inconsapevolmente permettere – ingurgitando una goccia di veleno al giorno – che ci facciano abituare a una “nuova normalità” fatta di situazioni inaccettabili, estreme, intrinsecamente discriminatorie.
Prendete la cronaca politica americana di questi giorni. Da un lato, c’è la sfavillante convention democratica a Chicago, accompagnata – sui media al di là e al di qua dell’Atlantico – da un autentico coro di voci bianche. Il Corrispondente Collettivo è in estasi, l’Editorialista Unificato è eccitatissimo, ormai ridotti a vere e proprie majorettes dem, a cheerleaders dell’obamismo. Come vi spiega oggi su Libero un eccellente articolo di Giovanni Sallusti, è tutto un rimbalzare delle parole «gioia» e «gioioso». In altri termini: bisogna sorridere con santa Kamala, omaggiare il santone Obama, partecipare a una festa, perché tale sarebbe – ci spiegano – una nuova vittoria dei democratici.
Naturalmente, povero Aristotele, nel senso di povera logica e povero principio di non contraddizione, tutti simultaneamente rottamati. Infatti, nelle ore pari ci spiegano che Kamala aggiusterà l’economia («she’ll fix up the economy»), e in quelle dispari vorrebbero convincerci della bontà dell’eredità di Biden.
Ancora: nelle ore pari presentano Kamala come se fosse la candidata del cambiamento, e in quelle dispari chiedono voti affinché da qui al 2028 i democratici possano dire di aver governato 16 anni su 20. Tutto e il contrario di tutto, una tesi e la tesi opposta: il frullatore dem mescola ogni tipo di ingrediente.
Ma non facciamoci distrarre dai violini e dai petali di rose che accompagnano la kermesse democratica. Chi c’è dall’altro lato? Ecco: la notizia largamente sottaciuta, o riferita burocraticamente come se fosse il fatto più normale del mondo, è che l’altro giorno Donald Trump è tornato a tenere un comizio all’aperto, ma ha dovuto farlo – per evidenti ragioni di sicurezza – dietro un vetro blindato.
Chiaro il concetto? Siamo arrivati al punto – che vorrebbero descriverci come “normale” – per cui uno dei due candidati, per mettere un piede fuori da uno spazio chiuso, deve infilarsi dietro una vetrata antiproiettile. Ma i grandi media ce lo riferiscono quasi en passant, con nonchalance, come se si trattasse di un dettaglio privo di rilievo.
La verità è che la gigantesca macchina mediatica che accompagna la marcia dei dem ha due compiti di pari rilevanza ai propri fini: per un verso, ovviamente, quello di pompare Kamala anche sbianchettando il suo discusso passato politico; per altro verso, offuscare-attenuare-obliterare il ricordo dell’atroce attentato subìto un mese fa da Trump. Vale la pena di ricordare ciò che i lettori di Libero sanno benissimo: quell’episodio non fu un mero “incidente”, ma rappresentò la difficilmente evitabile conclusione di una campagna di odio durata per anni, di una lunga mostrificazione, di una incessante demonizzazione. Che a un certo punto ha portato qualcuno a ritenere di dover “risolvere” la questione-Trump con un colpo di fucile. Ecco: poiché il tycoon è riuscito a salvare la pelle e a schivare il proiettile, l’obiettivo dei suoi nemici è diventato quello di far dimenticare il fattaccio. Trump, nella testa degli obamiani, che rimangono i pupari della macchina dem, deve tornare ad essere il “mostro” di prima, privo dell’alone di leggenda che oggettivamente lo ha circondato dopo lo scampato pericolo e dopo la sincera e vasta emozione suscitata dall’attentato ntro di lui. E allora? Non essendo immagibile una censura totale della a campagna elettorale, il fatto e debba farsi proteggere da un tro blindato deve diventare un arginale elemento di cronaca, un particolare di colore, un po’ come notare che indossa il solito cravattone rosso. Niente di più, niente di meno. E invece no, amici lettori. Dietro quel vetro antiproiettile non c’è solo il corpo di Trump da proteggere, ma ci sono tutti i suoi elettori, e in qualche misura ci siamo pure noi, che non siamo di sinistra e stiamo dall’altro lato dell’Oceano. Ma quell’innaturale cattività, quella segregazione forzata, quel gabbione trasparente è la metafora della condizione alla quale il controllo progressista delle parole e del pensiero sta riducendo la nostra discussione pubblica. È la stessa libertà di espressione (di alcuni, di chi non la pensa come il regime dem) a essere in pericolo: è bene esserne consapevoli. In base all’inversione orwelliana che ormai praticano automaticamente, amano parlare di «diversità», ma intendono «uniformità». E il “difforme”, il non omologato, il non conforme? Va recintato, moralmente e anche materialmente. Deriva tutt’altro che rassicurante per noi, mentre loro cantano, ridono e ci informano della loro “gioia”. Immaginate che ambientino se dovessero vincere...
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