Riprendiamo da IL FOGLIO di oggi, 22/08/2024, a pag. 1, l'analisi di Anna Zafesova dal titolo "Sul luogo del delitto".
Anna Zafesova
Vladimir Putin arriva in Cecenia e viene scarrozzato in un corteo di una cinquantina di automobili che lampeggiano come ghirlande di Natale, sfrecciando sulla Prospettiva di Vladimir Putin, verso il palazzo del governo dove gli viene mostrato il plastico del futuro quartiere Putinsky, un nuovo paradiso urbano ai margini di quella Grozny che aveva bombardato a tappeto un quarto di secolo fa. C’è qualcosa di inquietante, nella scena del dittatore russo che ritorna, per la prima volta in 13 anni, nel luogo dal quale era originato il suo potere, dove aveva lanciato la prima delle sue tante guerre, stabilendo fin dai primi giorni le regole che sarebbero state quelle del suo regime, a cominciare da quella che detta di “ammazzare nel cesso” i nemici. E c’è qualcosa di surreale nel vedere Putin inginocchiarsi e farsi ripetutamente il segno della croce sulle tombe delle vittime di Beslan (oltretutto in una commemorazione che anticipa di quasi due settimane la data del ventesimo anniversario della strage), per poi sbagliare clamorosamente il numero delle piccole vittime della scuola, e stupirsi alle affermazione delle loro madri che l’inchiesta, dal 2004 a oggi, non era ancora riuscita a individuare dinamiche e responsabili della carneficina. E’ quasi un ritorno sul luogo del delitto, reso ancora più assurdo dal fatto che tutta la Russia sa che Putin dovrebbe essere altrove, e sa anche dove: a Kursk. Con 120 mila sfollati, con un centinaio di centri abitati russi in mano agli ucraini, la consapevolezza che quella delle truppe di Kyiv ormai non si possa liquidare come sortita, e che la Federazione russa possieda ora dei territori occupati che potrebbero rimanere tali a lungo, la fuga di Putin nel Caucaso, dopo quella in Azerbaigian, sembra un tentativo di far dimenticare un problema che non sa come risolvere. Anche il bagno di folla a Vladikavkaz sembra un rimedio contro le difficoltà: normalmente molto attento a mantenere distanze siderali perfino con i suoi cortigiani, Putin si fa abbracciare dai passanti (di solito accuratamente selezionati prima dai servizi) dopo aver incassato qualche duro colpo, come era successo dopo il golpe di Evgeni Prigozhin l’anno scorso. E quando Kadyrov gli promette “decine di migliaia di combattenti addestrati”, si tratta di una frase a beneficio delle telecamere, per far tacere le voci sempre più insistenti sui soldati di leva mandati contro gli ucraini a Kursk, perché il Cremlino si rifiuta di spostare le truppe dei mercenari dal Donbas, preferendo occupare territori ucraini invece di difendere i propri. La scelta di Putin di andare a est invece che a ovest non è soltanto il tentativo di fare l’“uomo forte” lontano dal pericolo, o un tuffo nel culto della personalità generosamente offerto dal satrapo ceceno ansioso di garantirsi la successione famigliare del suo feudo (non a caso il presidente russo appare sull’Instagram di Adam Kadyrov, 16enne già pieno di medaglie e cariche). Come all’epoca del golpe della Wagner, Putin si sente tradito, e va a cercare conferme dai fedelissimi, consapevole del silenzio assordante di molti dei suoi uomini su Kursk. Il comandante ceceno Apti Alaudinov, con le sue dichiarazioni strombazzanti quanto infondate, ha di fatto sostituito negli ultimi giorni le fonti ufficiali dei militari russi. Denunciare di essere stati invasi dagli ucraini significa ammettere di essere in difficoltà, tacerne significa voler fuggire dalle difficoltà. Un dilemma dal quale il Cremlino non sa come districarsi, e tornare a rievocare la strage degli innocenti di Beslan potrebbe in questo caso ottenere un effetto opposto.
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