Notturno libico Raffaele Genah
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L’esodo degli ebrei dalla Libia come pure dalle terre di sole, deserto e mare che vanno dal Medioriente fino al Maghreb è un pezzo di Storia su cui non può calare l’oblio perché in quei paesi che avevano comunità ebraiche fiorenti, formate da commercianti, medici, rabbini e studiosi gli ebrei oggi non esistono più, cacciati o costretti a fuggire a seguito delle persecuzioni e delle discriminazioni montate dopo il 1948, dopo la nascita dello Stato di Israele e per gli ebrei libici dopo l’avvento al potere di Gheddafi nel settembre 1969. Con il colpo di Stato del Rais libico anche ventimila italiani, percepiti nel Paese come eredi e discendenti dei coloni, furono espulsi nell’ottobre del 1970: una comunità integrata nel corso degli anni al punto da dare impulso e slancio alla crescita economica e culturale del Paese, che fu costretta a lasciare la propria casa e a subire la confisca dei beni, a seguito delle leggi emanate dal Consiglio del Comando della Rivoluzione.
Come Raphael Luzon ha raccontato nel mémoire “Tramonto libico” (Giuntina) le vicende che lo hanno portato ad abbandonare Bengasi in seguito al pogrom scatenato nel 1967 dalle folle arabe contro gli ebrei, così Raffaele Genah, giornalista nato a Tripoli nel 1954, vicedirettore del Tg1 per diversi anni e poi capo della sede Rai per il Medioriente, firma un romanzo basato sulla storia vera di Jasmine Mimun e Giulio Hassan costretti a fuggire con i loro figli dalla Libia dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967 che innesca una spirale di violenza nella città e poi dopo il colpo di stato di Muammar Gheddafi nel 1969.
Raffaele Genah, lui stesso ebreo e costretto ad abbandonare la Libia con la famiglia all’età di tredici anni, raccoglie la testimonianza di Jasmine e Giulio i cui figli da tempo li incitavano a “mettere su carta” quei ricordi dolorosi perché rimanesse traccia delle atrocità che avevano subito.
Il dramma dei coniugi Hassan si compie in due momenti: il primo nel giugno 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni e le violenze esplose contro la comunità ebraica, i roghi, i morti per le strade, i cortei che invocano morte agli ebrei quando la famigliola riesce fortunosamente a salire su un aereo “con una valigia e venti sterline in tasca”, abbandonando in Libia ogni avere alla volta dell’Italia. “Sono più di quattromila le persone che nell’estate del ’67 lasciano Tripoli, Bengasi e le altre città”. Jasmine guardando l’aereo che si stacca dalla pista è convinta di non tornare mai più nel paese ma il destino prenderà una piega ancor più tragica. Perché il secondo atto del dramma si compie nel settembre del 1969 con il colpo di stato dei colonnelli e l’inizio del regime di Gheddafi. Giulio sente il dovere di recuperare almeno una parte del lavoro di una vita del padre e nonostante il parere contrario della moglie, la famiglia torna a Tripoli per sistemare alcuni affari in sospeso e cercare di liquidare le attività e le proprietà del padre. Una decisione che li farà precipitare in un incubo durato quattro anni. Dopo uno scampato linciaggio e l’assalto alla loro abitazione dove Jasmine si era asserragliata da parte di una folla inferocita nemmeno quarantotto ore dopo Giulio viene prelevato nella notte fra il 10 e l’11 settembre da agenti della Polizia segreta e condotto senza alcuna spiegazione nel carcere di Bab Ben Ghshir e rinchiuso insieme a molti oppositori e dissidenti del regime fra cui ministri e funzionarti caduti in disgrazia.
Non ci sono accuse a suo carico né imputazioni se non il fatto che Giulio è ebreo e dai discorsi di una guardia intuisce che sospettano sia un funzionario mandato da Israele.
Da qui inizia la discesa all’inferno di Hassan con botte, torture, una costante guerra psicologica per minare le difese personali. Ma Giulio non si fa intimidire: inizia a fare ginnastica per rafforzare il fisico costretto alla prolungata inattività, ad immaginare, lui ingegnere, calcoli per conservare vigile la mente, non accetta ingiustizie, resiste ai soprusi e si fa rispettare dalle guardie e dai compagni di cella. Arriva persino ad osservare il Ramadan per non mancare di rispetto ai detenuti arabi di fede islamica.
“in quel perimetro soffocante – riflette Giulio – impari a conoscere l’umanità che ti circonda anche attraverso le sue mille facce. Il carcere ti cambia il modo di pensare, di vivere, di dormire, di mangiare. E soprattutto di vedere e apprezzare il valore delle cose, della salute, del tempo”.
Se Giulio deve resistere agli orrori delle carceri di Gheddafi, Jasmine da giovane donna riservata e timida si trasforma in una tigre, come aveva ipotizzato lo suocero prima che si sposassero. Si batte con coraggio per la liberazione del marito, viene insultata, picchiata ma non si perde d’animo. Torna in Italia con i figli e da lì scrive alla Croce Rossa, al Vaticano, ad Amnesty International senza troppi risultati. Va a Tunisi per incontrare un ministro che potrebbe intercedere con il governo libico in vista di un accordo futuro fra i due paesi, a Parigi incontra un avvocato che le propone di prendere contatti con un dirigente dell’Olp. Tutte iniziative che si rivelano infruttuose fino a quando Jasmine dopo aver mosso mari e monti, aver inseguito promesse poi disattese, senza mai perdere una briciola della sua grinta e intenzionata a far valere i loro diritti riesce nell’impresa impossibile di liberare il marito. Lasciamo alla curiosità del lettore scoprire il frenetico avvicendarsi degli eventi che porteranno la famiglia Hassan a riunirsi. Basta ricordare – come racconta l’autore – che nella tempesta che li ha investiti sono riusciti a mantenersi fedeli a una promessa non scritta: non superare mai l’invalicabile linea rossa imposta dalla propria dignità.
A capitoli alterni, con interessanti brani di contestualizzazione storica, ascoltiamo la voce dei protagonisti di questa incredibile odissea che dopo cinquant’anni ricostruiscono gli eventi drammatici che hanno vissuto ripercorrendo fatti, dettagli, ricordi in un difficile percorso di scavo nella memoria per affidare a queste pagine un pezzo di Storia su cui non può, non deve calare l’oblio.
In questo libro dallo stile essenziale, scritto con una prosa avvincente che catapulta il lettore in un mondo di emozioni contrastanti, dalla commozione alla rabbia, dalla tensione alla speranza di un lieto fine per la famiglia Hassan, l’autore si fa portavoce con la potenza della cifra letteraria di una storia di amore, coraggio e resilienza che una volta conosciuta non potremo dimenticare.
Giorgia Greco