Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 20/08/2024, a pag. 1, con il titolo "Hamas non cambia" l'analisi di Micol Flammini.
Micol Flammini
Dal 7 ottobre, Antony Blinken è andato per nove volte in Israele. I viaggi del segretario di stato americano non hanno cambiato la guerra sul campo, ma sono serviti a tenere in piedi un rapporto burrascoso tra l’Amministrazione americana e il governo israeliano, in cui vari esponenti si sono lasciati sfuggire il desiderio di rivedere Donald Trump alla Casa Bianca. Incuranti delle sparate trumpiane del governo di Gerusalemme, i funzionari americani hanno continuato a lavorare per un accordo che permetta agli oltre cento ostaggi che sono ancora a Gaza di essere liberati. Non è altruismo, ma pragmatismo: gli Stati Uniti non possono permettere ai nemici di Israele di logorare lo stato ebraico, né possono permettersi un conflitto lungo in medio oriente. Sanno di dover intervenire e l’attivismo di Blinken dimostra che la pressione è sempre stata costante, ma adesso è a un livello inedito. Durante l’incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il segretario di stato ha ottenuto la conferma che Israele sostiene la proposta di accordo degli Stati Uniti, anche la soluzione definita “ponte” che dovrebbe portare alla realizzazione dell’intesa in tre fasi e che permetterebbe di raggiungere il cessate il fuoco definitivo a Gaza e la liberazione di tutti i prigionieri, vivi o morti, che sono nelle mani di Hamas. E’ il gruppo della Striscia però che continua a rifiutare un accordo, accusando Washington di non essere affidabile, e di accontentarsi di esaudire le richieste di Netanyahu. I “no” di Hamas finora non hanno fermato i negoziati: questa settimana Israele manderà al Cairo, in Egitto, la squadra per i negoziati che contano – il capo del Mossad David Barnea, il capo dello Shabak Ronen Bar e il maggiore Nitzan Alon – e gli Stati Uniti che chiamano questi ultimi colloqui “l’ultima chance” – il concetto è stato ribadito anche ieri da Blinken – continuano a parlare di uno sforzo intenso, di risultati positivi. A porte chiuse, come sempre accade, si dice altro, si esaminano le differenze e soprattutto non si tolgono gli occhi dai due corridoi che Israele non vuole lasciare: il Netzarim e il Filadelfia. Il primo taglia in due la Striscia di Gaza e permette di controllare quindi chi cercherà di tornare al nord. Il secondo invece è la zona cuscinetto che separa l’Egitto da Gaza, è stato la vena di rifornimento dei terroristi e adesso che Israele ha acconsentito a un accordo che di fatto non smonta il potere di Hamas vuole almeno avere rassicurazioni sul fatto che quella linea di terra sia controllata o da Tsahal o da forze straniere, oppure, come sembrano insistere gli americani, anche dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ieri Hamas ha rivendicato assieme all’altro gruppo che opera nella Striscia un attentato fallito a Tel Aviv e ha promesso che ne verranno organizzati altri, mostrando di non avere alcuna intenzione di cambiare il suo metodo di governo a Gaza o i suoi rapporti con Israele. Mahmoud Abbas, il leader dell’Anp, ha detto di voler andare a Gaza, non si sa come verrebbe accolto, ma quel che è certo è che soltanto Israele può occuparsi della sicurezza e permettergli di entrare nella Striscia. Abbas perse la Striscia nel 2007, Hamas si prese il potere e da allora cerca di sostituirsi a Fatah anche nei territori della Cisgiordania.
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