In vacanza a Rodi
Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica
Data: 18/08/2024
Pagina: 1/23
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: In vacanza col nemico nel Mediterraneo

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 18/08/2024, a pag. 1/23, con il titolo "In vacanza col nemico nel Mediterraneo", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.

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Maurizio Molinari
In vacanza col nemico nel cuore del Mediterraneo - la Repubblica
Benvenuti a Rodi, terra di frontiera, dove chi si confronta con ferocia fra Beirut e Gerusalemme può passare le ferie spalla a spalla

"Todà Rabà". La giovane manager di un grande hotel di Rodi accoglie una famiglia israeliana sfoggiando un ebraico con accento ellenico mentre, dietro di loro, in fila per il check-in, c’è una coppia di libanesi, appena arrivati da Beirut, che ascoltano, sorridono fra loro, e fanno come se niente fosse. Benvenuti a Rodi, l’isola greca davanti alla costa turca abituata ad essere terra di frontiera dall’epoca dei Cavalieri di Malta che in questi giorni è un angolo d’Europa appollaiato in Medio Oriente, dove chi si confronta con ferocia fra Beirut e Gerusalemme può passare le vacanze spalla a spalla. La convivenza fra nemici è una delle caratteristiche del Medio Oriente che gli occidentali hanno più difficoltà a comprendere. In realtà nella Città Vecchia di Gerusalemme armeni, cristiani, ebrei e musulmani convivono senza amarsi pur essendo uno degli epicentri del centenario conflitto arabo-israeliano proprio come avviene lungo la strada che percorre la Valle della Bekaa libanese, dove villaggi sunniti, sciiti e cristiani si succedono quasi uno dentro l’altro sebbene, dalla guerra civile del 1976 in poi, si siano spesso combattuti armi in mano. Per toccare da vicino la banalità della coesistenza fra nemici bisogna entrare nella sala del breakfast dell’hotel di Rodi: ha al centro un buffet con ogni possibile cibo ma il banco che offre le pietanze salate ha grandi piatti con bacon rosato, fettine di maiale in salsa di mostarda e altre varietà di “carne bianca”. I clienti libanesi musulmani e molti degli israeliani si avvicinano, guardano con cura ed educatamente si allontanano ripetendo, consapevolmente o meno, gesti che tradiscono il rispetto di regole culinarie comuni, incentrate sul divieto di mangiare carne suina. A mangiarla invece, con disinvolta facilità, sono gli israeliani più laici come i libanesi cristiani, accomunati nell’ora dei pasti anche dagli ordini di humus con olio ed olive — come si usa da Beirut a Tel Aviv — così come dal consumo industriale di limonata, altra abitudine dei popoli che vivendo con il deserto sanno l’importanza di sostenersi con acqua, zucchero e limone: la più sana e rinfrescante delle bevande. Ma è quando si entra in piscina che la fusione fra mondi brutalmente in guerra dà vita ad un’unica, inconsueta, tribù. I libanesi cristiani si distinguono per i tatuaggi con croci e scritte in arabo su amore e fortuna, che accomunano uomini e donne in costume a due pezzi, mentre nelle famiglie dei libanesi musulmani solo padri e figli piccoli fanno il bagno, con le mogli e madri coperte da veli leggeri di color chiaro che li aspettano sulle sdraio, senza mai toccare l’acqua. Ai bordi di una piscina, dove israeliani con lakippà — il tradizionale copricapo ebraico — prendono il sole e giovani ragazze con la catenina al collo che ricorda gli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre fanno il bagno assieme agli arabi. Le une incuranti degli altri, e viceversa. Si ascoltano e si ignorano. Sanno che a pochi centimetri di distanza c’è un nemico ma l’indifferenza è la chiave della coesistenza, che sia un tuffo o un drink poco importa. Il tutto negli stessi giorni nei quali radio locali e tv internazionali martellano con le notizie di una imminente guerra totale in Medio Oriente, con al centro lo scontro più feroce fra gli Hezbollah libanesi sciiti di Hassan Nasrallah, sostenuti da Teheran, e lo Stato ebraico. C’è un momento, verso mezzogiorno, quando il solepicchia di più, che vede due giovani israeliane — una di evidente origine etiope, l’altra con carnagione lattea — emergere dalle acque della piscina proprio davanti alle sdraio della famiglia libanese appena arrivata da Beirut con un volo della Mea. Il padre arabo-cristiano parla ad alta voce, impossibile non sentirlo, si rivolge ai due figli — corporatura da corazzieri — dicendogli di non lasciare troppo sole le rispettive fidanzate. Scherzano fra loro, mentre le ragazze israeliane, a pochi centimetri di distanza, continuano a parlare in ebraico sugli hobby nautici preferiti, senza curarsi troppo di cosa gli avviene attorno. Diventano così tutti protagonisti, in qualche modo, di uno spazio di libertà a compartimenti stagni che consente di distaccarsi da un tempo di guerra distante appena un’ora di volo, per entrambi. D’altra parte, Rodi è l’isola dove l’eredità di coesistenza è ovunque. I sultani ottomani vi accolsero gli ebrei in fuga dopo l’espulsione dalla Spagna decretata da Isabella la Cattolica nel 1492, dando vita ad una convivenza fra musulmani ed ebrei che portò la città fortificata ad essere divisa praticamente a metà, per secoli, fra le due fedi monoteiste. Per non parlare della scelta di un importante imam locale che nel luglio del 1944, poco prima della deportazione di tutti gli ebrei di Rodi ad Auschwitz, accettò di mettere in salvo i cinque più antichi Sifrei Torà — i Rotoli della Legge — avvolti in un tappeto e calati in un pozzo con una fune che li tenne ben distanti dall’acqua per quasi dieci mesi, fino a quando la sconfitta dei nazisti permise di recuperarli e riconsegnarli ai pochissimi sopravvissuti. Seduto in un angolo della Busanà — la strada dell’antico quartiere ebraico che porta il nome turco del vento freddo, essendo uno dei luoghi più freschi dentro le mura — il 94enne Sami Modiano, scampato agli orrori di Auschwitz, ricorda la sua gioventù in una città «dove tutti convivevano con tutti, italiani, greci e turchi, ebrei, cristiani e musulmani, parlando più lingue in ognifamiglia, studiando e vivendo assieme». «E tutti noi bambini, mangiavamo gli stessi dolci in case di famiglie differenti», tiene a puntualizzare. Rodi è una terra di confine, in uno spazio marittimo ridotto del Mar Egeo fra Europa ed Asia, che ha nelle viscere l’eredità di una coesistenza fra fedi cementata da tradizioni, cibi e musiche che si confondono e sovrappongono facendo percepire come il Mediterraneo sia e resti un’unica grande comunità umana, a dispetto di interminabili violenze e guerre che la lacerano. Si comprende così anche perché in un angolo del Gran Bazaar di Istanbul, altro luogo di frontiera fra Continenti, c’è una bottega di antiquari afghani niente affatto ostili al regime dei talebani — assicurano che «da quando sono tornati al potere c’è più ordine a Kabul» — i cui oggetti più venduti sono di giudaica: si tratta in particolare di antichemezuzot, che gli ebrei usano affiggere sugli stipiti delle case con dentro benedizioni scritte su minuscole pergamene. Per questi antiquari non c’è contraddizione fra apprezzare i talebani e sostenere il proprio business puntando sulla cultura ebraica nel cuore della Turchia di Erdogan portavoce dell’ostilità più virulenta nei confronti di Israele. Sono tasselli di vita del Mediterraneo, lo stesso che A.B. Yehoshua amava descrivere nei suoi libri come crocevia imprevedibile dell’umanità. Dove il melograno è sinonimo di conoscenza e vita così come il pistacchio lo è di determinazione e combattività. Entrambi con sapori talmente irresistibili da essere apprezzati, amati, allo stesso modo dagli avversari più spietati. Ecco perché il microcosmo di Rodi ci ricorda che, oggi come in passato, c’è un angolo di Mediterraneo dove chi si odia riesce a convivere. Nuotando nella stessa piscina e mangiando pane con il sesamo. Facendo prevalere la dinamica della vita, per conquistarsi e godersi ogni attimo di tranquillità, nella consapevolezza che la prossima guerra è, prima o poi, in arrivo.

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