Riprendiamo da LIBERO di oggi, 14/08/2024, a pag. 1/12, con il titolo "L'Iran tiene il mondo con il fiato sospeso e ora vuole mandare uno dei suoi alle trattative" la cronaca di Daniel Mosseri.
Daniel Mosseri
In Italia è una data balneare, ma in Medio Oriente questo Ferragosto sarà un giorno di lavoro. Al tavolo negoziale, al Cairo o a Doha, gli Stati Uniti cercheranno di spingere Israele e Gaza a firmare una tregua. Un lavoro in salita: il nuovo capo politico di Hamas, Yahya Sinwar, già mente del 7 ottobre, ha messo le mani avanti spiegando che forse Hamas non sarà presente (ma il Qatar ha promesso che farà di tutto perché Hamas ci sia) e che, comunque sia, condizione necessaria sarà la completa cessazione delle ostilità da parte di Israele.
Da parte sua l’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha diramato una nota per smentire le accuse secondo cui Bibi avrebbe introdotto condizioni aggiuntive alla bozza di intesa elaborata dall’amministrazione Usa a fine maggio.
A sorpresa, poi, due rappresentanti iraniani hanno informato ieri Reuters che «Teheran sta considerando di inviare un rappresentante al negoziato per un cessate il fuoco fra Israele e Hamas». E in serata fonti da Teheran aprono uno spiraglio: «L’Iran non attaccherà se dai negoziati scaturisce la tregua a Gaza».
«ENTITÀ SIONISTA»
Non si tratterebbe di una sedia da aggiungere al tavolo – i rappresentanti degli ayatollah non si accomodano accanto agli inviati dell’«entità sionista» – ma di una partecipazione da dietro le quinte per mantenere «un canale di comunicazione diplomatica con gli Stati Uniti». Un’uscita controcorrente per un regime che ieri ha tenuto un’esercitazione militare allo scopo non dichiarato di migliorare la propria prontezza in occasione dell’annunciato attacco contro Israele.
L’impressione è che la guida suprema Ali Khamenei cerchi una via d’uscita: dopo aver assicurato che lo Stato ebraico sarà punito per aver ucciso a Teheran l’ex capo di Hamas, Ismail Hanyeh, fa dire a Reuters che «l’Iran e il suo alleato Hezbollah effettueranno un attacco diretto contro Israele se i negoziati falliranno o se Israele continua a prolungarne i tempi», senza però indicare una data ultima. Forse ha letto il recente rapporto della Banca mondiale secondo cui attaccando Israele ed esponendosi alla sua reazione la Repubblica islamica rischia una crisi economica senza precedenti; uno tsunami occupazionale e infrastrutturale che si abbatterebbe su un paese già provato dalle sanzioni internazionali e decenni di una politica la cui priorità non è il benessere degli iraniani ma finanziare le organizzazioni terroristiche che circondano Israele.
L’agognata distruzione dello Stato ebraico, insomma, costa tanto e anche a Teheran il piatto piange. Lo stesso vale per il Libano con la differenza che Beirut non è padrona del proprio destino ma dipende dalle scelte di Hezbollah. Anche Israele, che ha perso 689 militari dallo scorso 7 ottobre, ha un ovvio incentivo economico a una tregua. Come “riflesso dei rischi geopolitici” l’agenzia Fitch ha tagliato il rating di Israele da «A+» a «A» con outlook negativo.
Pronta la replica di Bibi: «L’economia israeliana è forte e funziona bene. Il taglio del rating è il risultato di una guerra che Israele è obbligato a combattere su più fronti.
Il rating tornerà a salire appena vinceremo. E vinceremo».
Il premier accusa poi le divisioni in seno alla maggioranza politica che ha costruito aprendo per la prima volta a due partiti nazionalisti-religiosi di fatto fuori controllo.
Ieri il ministro della Sicurezza, l’ipernazionalista Itamar Ben Gvir, ha compiuto una nuova “passeggiata” sul Monte del Tempio ossia la Spianata delle Moschee rivendicando il diritto di un ebreo di pregare ovunque. L’ufficio di Netayanhu lo ha bacchettato affermando che lo status quo sul Monte del Tempio non è cambiato e che l’evento mattutino sul sito «ha deviato dallo status quo» per poi ribadire che le decisioni politiche sono «di competenza del governo e del primo ministro».
NUOVI RAID
A una situazione politica, diplomatica ed economica complicata fa riscontro una situazione sul terreno infuocata. Ieri le brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas hanno rivendicato il lancio di due missili da Gaza su Tel Aviv.
Uno dei due M90 è però caduto in mare, lontano dalla costa; l’altro non ha neppure superato i confini della Striscia. Le Israel Defense Forces da parte loro hanno rivendicato l’eliminazione di 100 terroristi di Hamas, la distruzione di alcune infrastrutture del movimento e il sequestro di materiale bellico. Israele cerca così di presentarsi al tavolo negoziale come la parte a cui non si dettano condizioni. Fuoco anche al nord: martedì sera il canale Al Manar di Hezbollah ha reso noto che i miliziani Jamil Al-Ashi e Mohammad Fadi Shehab «hanno abbracciato il martirio fino a Gerusalemme» a seguito dell’attacco di un drone israeliano. Sarebbero 407 i terroristi della milizia sciita eliminati da Israele dalla ripresa delle ostilità dieci mesi fa.
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