Riprendiamo da LIBERO di oggi 09/08/2024, a pag. 3, con il titolo "Economia, esteri, giustizia: Enrico ha sbagliato sempre", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Con il rispetto che si deve a una figura sicuramente nobile della politica italiana, ma anche – finalmente – rompendo un tabù e superando un complesso d’inferiorità che si è impossessato da troppo tempo anche di settori (temo non minoritari) della destra italiana, è venuto il momento di dire ad alta voce che Enrico Berlinguer aveva torto.
Aveva torto su tutto: aveva torto in politica estera e nella collocazione internazionale; aveva torto in economia; aveva torto nel rapporto politico con il (da lui detestato) Bettino Craxi; aveva torto nel brandire la questione morale, prodromo della successiva deriva giustizialista e della sempiterna pretesa di “diversità” comunista.
Ed è francamente paradossale che oggi, da un lato e dall’altro dello schieramento politico, si sia ancora ipnotizzati dalla sua figura, e quasi incapaci di una robusta ed onesta critica. Che dovrebbe portare la sinistra (operazione mai nemmeno avviata) a orientarsi in senso riformista e socialdemocratico, archiviando come una tragedia la lunga fascinazione comunista. E dovrebbe – ancora più doverosamente – indurre la destra a riconoscere nel segretario del vecchio Pci il modello di cosa non essere, di cosa non pensare, di cosa non fare, anziché farne una figura da cui trarre ispirazione.
Al massimo, dunque, è dovuto il rispetto, ma non altro. E - quanto al rispetto - sarebbe richiesta reciprocità.
Non si vede per quale ragione, infatti, all’atteggiamento anche troppo rispettoso che l’attuale centrodestra riserva alla sinistra italiana, debba corrispondere, a parti invertite, la demonizzazione e la fascistizzazione a cui assistiamo quotidianamente.
POLITICA ESTERA E COLLOCAZIONE INTERNAZIONALE
Su questo fronte, gli apologeti di Berlinguer amano ricordare la celebre intervista concessa a Giampaolo Pansa nel 1976 in cui il capo del Pci ammise di sentirsi «più sicuro» sotto l’ombrello della Nato. Dichiarazione indubbiamente significativa. Peccato che anche dopo quell’intervista, Berlinguer restò ben collocato in tutt’altra orbita. Il rapporto con Mosca e il Pcus rimase ben saldo (finanziamenti inclusi) per molti anni ancora, e i comunisti italiani continuarono ad abbracciarsi con Breznev.
E – si badi bene – non si trattava di una condanna, ma di una ben precisa scelta, che altri, con lungimiranza e coraggio ben maggiori, avevano potentemente avversato. Già nel 1977, ad esempio, nel quadro del grande rinnovamento craxiano dei socialisti, Carlo Ripa di Meana – da direttore della Biennale – era stato artefice di un’edizione dedicata al dissenso d’oltrecortina, tema peraltro già ampiamente arato dai radicali di Marco Pannella.
Non solo. Ancora nel 1981, nel momento decisivo in cui si trattò di installare in Italia gli euromissili (a Comiso, in provincia di Ragusa), marcando una deterrenza forte verso Mosca e un rapporto più stretto con gli Usa e chiamando tutti a una scelta di campo tra Occidente e Patto di Varsavia, il Pci si scatenò contro, facendo di Giovanni Spadolini, Francesco Cossiga e ancora Craxi altrettanti bersagli.
ECONOMIA, TRA AUSTERITÀ E BATTAGLIA SULLA SCALA MOBILE
Anche in questo caso, dal mantra dell’austerità fino alla battaglia (perdente) sulla scala mobile, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta il Pci berlingueriano, anziché interpretare le esigenze di dinamismo e modernizzazione del Paese, si arroccò su una linea economicamente pauperista, segnata da un mix di ideologia e immobilismo.
In Parlamento, il Pci votava a favore o comunque consentiva il passaggio delle più gravi leggi di spesa, quelle che avrebbero contribuito a costruire la montagna del debito pubblico. Ma per altro verso, sul piano politico generale, i comunisti hanno sempre avversato – rispetto ai liberali – ogni ipotesi di taglio di tasse e alleggerimento del ruolo pubblico nell’economia, così come – rispetto ai socialisti e ai laici minori – ogni ipotesi seriamente e compiutamente riformista.
L’ODIO VERSO CRAXI IN VITA E POST MORTEM
Il più odiato dalla cerchia berlingueriana (da Antonio Tatò a Franco Rodano, fino alle generazioni più giovani: Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Walter Veltroni) è sempre stato Bettino Craxi, l’uomo che aveva sfidato il Pci, rifiutando lo schema di un socialismo subalterno alle due grandi “chiese”, la comunista e la democristiana.
Craxi, che governò con il pentapartito ma rimase un uomo di sinistra, fino alla fine sperò (o si illuse) che potesse ricrearsi, almeno dopo il crollo del Muro, una unità socialista a guida riformista. E, come dono generoso, favorì l’ingresso degli ex comunisti nell’Internazionale socialista.
Ne ricavò solo e sempre odio, in vita e post mortem, un mix di dannazione morale e persecuzione giudiziaria.
Ma aveva ragione lui (e torto loro) su tutto.
QUESTIONE MORALE PRODROMO DEL GIUSTIZIALISMO
Un altro evergreen, nelle operazioni agiografiche verso Berlinguer, è il recupero della sua formula relativa alla “questione morale”. È l’ora di dire, rompendo un altro tabù, che si trattò di una escogitazione politica due volte errata. Errata tatticamente, perché ritrasse il Pci da una nuova e diversa politica delle alleanze, arroccandolo su una posizione identitaria basata su una pretesa di diversità etica (peraltro infondata: visto il finanziamento da Mosca e quello del sistema delle cooperative). Ed errata anche strategicamente, perché rappresentò il terreno su cui sarebbe cresciuto il giustizialismo degli anni successivi: con il tentativo di abbattere per via giudiziaria gli avversari che non si era riusciti a sconfiggere sul terreno politico-elettorale.
*** Dopo di che, tornando all’oggi, non sorprende il tentativo comunista di riscrivere la storia a proprio uso e consumo: è da sempre una specialità di quella casa. Anche sul piano della produzione pop più recente, la sinistra – in tutte le sue sfumature e appartenenze – ha un talento speciale nel “correggere” la storia con effetti di autoconsolazione-rassicurazione-propaganda.
Nel 2023, per limitarci a due esempi, sono usciti un paio di film (Quando di Walter Veltroni e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti) forse non eccezionali per qualità artistica, e peraltro assai diversi per stile, ma entrambi strepitosi nell’opera di rielaborazione.
Veltroni (che ci offre una storia alla Goodbye, Lenin!) rilegge la parabola del Pci attraverso gli occhi di un uomo che si risveglia dopo trent’anni di coma: ed è un trionfo di nostalgia, sbianchettando-attenuando-smussando tutte le asprezze della storia comunista. Il protagonista arriva a dire: «Noi siamo sempre stati per lo strappo dall’Urss». Senza parole.
Quanto a Moretti, il regista immagina nel suo film una sorta di favola, con il Pci nel 1956 a favore di Budapest e contro l’invasione sovietica. Peccato che le cose, nella realtà, siano state ben diverse, con le parole di Giorgio Napolitano (che se ne sarebbe scusato soltanto una cinquantina di anni dopo) a difesa della repressione voluta da Mosca. Hanno fatto molto bene, a suo tempo, Antonio Socci su Libero e Alessandro Gnocchi su Il Giornale a commentare con severità questa attitudine della sinistra: un po’ di rimozione, un po’ di riscrittura, e l’autoassoluzione è servita, dando un’ulteriore spolverata e un tocco di lucido al proprio complesso di superiorità morale e culturale. «La via cinematografica al revisionismo» ha efficacemente commentato Socci. Siamo ancora e sempre lì.
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