Riprendiamo da BET Magazine-Mosaico, con il titolo "J’accuse: come un titolo può cambiare la realtà: percezione e propaganda nella stampa internazionale", il commento di Sofia Tranchina.
Un J’accuse verso i media che, per motivi politici o per disattenzione, hanno condotto una campagna abominevole, ingannando l’opinione pubblica e oscurando la cronologia dei fatti. J’accuse le testate che svendono la verità per un titolo accattivante ma fuorviante, senza preoccuparsi di ciò che il lettore comprende. J’accuse i giornalisti che scelgono sinonimi ingannevoli, ben consapevoli di operare una manipolazione dialettica. Tra questi, quelli che usano “è morto” o “è stato assassinato” a seconda del soggetto, e quelli che hanno scritto nei loro titoli che gli ostaggi israeliani salvati dall’IDF erano stati liberati, inducendo il lettore distratto a credere che Hamas li avesse rilasciati volontariamente. Non è un mistero che la realtà percepita dal lettore sia modellata dalla precisa scelta di una parola in grassetto, di una certa foto o di un certo titolo.
Un esempio eclatante di manipolazione – involontaria e in buona fede, vogliamo credere – è l’edizione cartacea del 29 luglio del Washington Post: in alto, una foto scattata da Heidi Levine che ritrae i drusi di Majdal Shams al funerale dei 12 bambini uccisi da un razzo proveniente dal Libano. Sotto, in grande, il titolo “Israele colpisce target in Libano”. Benché in realtà il target colpito da Israele fosse il comandante di Hezbollah Fuad Shukr, ritenuto il primo responsabile dell’attacco che ha causato la morte dei suddetti 12 bambini, l’associazione del titolo e dell’immagine trasmette a primo impatto che i morti e le lacrime nella foto siano causati da Israele che colpisce il Libano, e non dal Libano che colpisce… che cosa colpisce? Non “territorio in mano a Israele”, non il più neutro “le Alture del Golan”, ma “i territori occupati illegalmente da Israele sulle Alture del Golan”.
Con questa formula, la maggior parte delle testate internazionali hanno spostato l’attenzione dalla morte di bambini innocenti che giocavano a pallone allo status del territorio “occupato nel 1967 da Israele, la cui sovranità sulle Alture del Golan è stata riconosciuta solo dall’America”.
Omettendo però che questa regione è stata militarizzata e usata dalla Siria negli anni ’50 e ’60 per dominare sul nord di Israele da una posizione strategica sopraelevata, e lanciare numerosi attacchi contro civili israeliani in Galilea. Omettendo che nel 1957 un attacco siriano al kibbutz Gadot uccise la civile Ra’aya Goldschmidt, e un altro attacco al kibbutz Gonen uccise Kamus Ben Atiya. Omettendo che l’Egitto di Nasser spingeva per un attacco coordinato contro Israele, creando un’alleanza con Siria e Giordania sotto il nome di Repubblica Araba Unita, armata dall’Unione Sovietica; che accumulò numerose forze egiziane nel Sinai, bloccò le rotte marittime israeliane nello Stretto di Tiran, e spinse Israele nella guerra dei Sei Giorni di quel 1967 in cui “occupò – illegalmente – le alture del Golan”.
Alcuni giornali si sono dilungati poi a specificare che i drusi “si considerano siriani, non israeliani”, ma non hanno specificato che questo è vero solo per la minoranza di drusi delle Alture del Golan, e non per i 150mila drusi che, poco più a sud, detengono la cittadinanza israeliana e si coscrivono del tutto volontariamente al servizio militare israeliano, in cui raggiungono anche posizioni d’alto rango e nel quale hanno combattuto per Israele contro i vicini arabi e palestinesi. E, Dio non voglia, senza specificare che diversi membri drusi siedono anche nel parlamento israeliano (Knesset).
Un altro esempio di manipolazione – inintenzionale, beninteso – è il titolo del New York Times del 2016: “2 Palestinians Killed Following Stabbing Attack in Jerusalem” (2 palestinesi uccisi in seguito ad un accoltellamento a Gerusalemme), che non fa nessun riferimento al fatto che i palestinesi uccisi erano proprio i terroristi responsabili dell’accoltellamento, uccisi da una guardia di sicurezza mentre si dirigevano verso un negozio alimentare per accoltellare altre vittime. Solo dopo pressioni esterne il titolo è stato cambiato in “Palestinian Assailants Are Killed After Knife Attack on 2 Israeli Women” (Aggressori palestinesi vengono uccisi dopo l’attacco con coltello contro 2 donne israeliane).
Più recentemente, colpisce la strana apologia per il terrorista Ismail Haniyeh – leader di Hamas e amico del sanguinario ayatollah Khamenei – descritto dalla CNN come “forza moderata e leader politico”, da Sky come “molto moderato” e dal New York Times come “relativamente pragmatico”, appellativi che stridono alquanto con il personaggio, che ha sempre glorificato la jihad e il martirio, e ha la responsabilità di diversi attentati terroristici. Il quotidiano parigino Libération l’ha dipinto come un negoziatore che voleva la pace, scrivendo: «il leader politico di Hamas in esilio, ucciso mercoledì 31 luglio a Teheran in un attacco israeliano, è stato il principale negoziatore del movimento per i colloqui di cessate il fuoco volti a porre fine alla guerra a Gaza».
Tra i vari necrologi, la BBC ha pubblicato un “Chi era Ismail Haniyeh in 140 parole”, in cui non menziona nemmeno una volta i suoi attentati terroristici omicidi, dipingendo in un quadro lacunoso un uomo tutt’al più innocente assassinato da Israele, così buono da intrattenere “buoni rapporti” anche “con altri gruppi palestinesi rivali”.
La BBC, peraltro, è stata accusata di antisemitismo istituzionale sistemico in una lettera firmata da 208 persone (incluso l’ex controllore di BBC One Danny Cohen), che chiedevano un’indagine interna e fornivano esempi di inesattezze e parzialità nella copertura della guerra a Gaza, riportando testimonianze di dipendenti ebrei. La risposta del presidente della BBC Samir Shah è stata di respingimento, sostenendo che l’azienda rispetta i più alti standard di imparzialità. Questo atteggiamento ha suscitato indignazione tra i firmatari: l’ex produttore di Panorama, Neil Grant, ha dichiarato che «quando presentiamo prove convincenti dell’antisemitismo istituzionalizzato della BBC, firmate da oltre 200 colleghi, ci aspettiamo di essere ascoltati e non manipolati, soprattutto dal consiglio della BBC, che non discuterà nemmeno formalmente le nostre preoccupazioni».
La responsabilità sociale dei media nel promuovere la comprensione (e con essa, si spera, la pace) piuttosto che il conflitto non è solo una questione di etica professionale. La disinformazione mediatica può rafforzare pregiudizi esistenti, influenzando i comportamenti delle persone e portando talvolta ad attacchi fisici violenti, e può condizionare le politiche estere, avendo ripercussioni significative sulle vite delle persone coinvolte nel conflitto.
Per questo, è cruciale includere testimonianze e prospettive diversificate, come ha spesso fatto La Repubblica di Molinari mettendo fianco a fianco testimonianze opposte. Raccogliere voci diverse, includendo esperti, testimoni oculari e rappresentanti di varie comunità, permette di offrire una visione più completa e sfaccettata della realtà.
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