Riprendiamo da LIBERO di oggi, 24/07/2024, a pag. 17, con il titolo "La Cina fa fare accordi agli altri, ma a casa sua sa solo reprimere" l'analisi di Maurizio Stefanini.
Maurizio Stefanini
La Cina si adopera per i palestinesi, ma ha in casa quello Xinjiang in cui la minoranza indigena turcofona e islamica degli uighuri. Cinque dei 12 milioni di abitanti, è sottoposta a quello che gli attiviti uighur stessi definiscono un “genocidio”, e che nel 2002 valse alla regione una visita dell'allora Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet. Nel luglio del 2009 dopo la repressione di una sommossa che nel capoluogo Ürümqi fece 197 morti e 1721 feriti anche Turchia e Iran protestarono con Pechino, ma dopo da allora il dossier sembra essere stato da loro completamente dimenticato, nell'interesse di entrambi i governi a fare sponda con Xi Jinping in chiave anti-occidentale.
Proprio all'epoca della visita della Bachelet un gruppo di 14 importanti testate internazionali rese noti alcune migliaia di documenti hackerati dalla polizia locale e che attestavano appunto come nello Xinjiang, se non proprio un genocidio, vi sia comunque una repressione massiccia. C'erano in particolare 5000 foto giudiziarie di uighur, prese tra il gennaio e il luglio del 2008. Incrociando le informazioni, si ricavava che almeno 2884 di loro erano detenuti, il più giovane appena 15enne.
Risultava anche un uso generalizzato delle accuse di terrorismo, con migliaia di condanne arbitrarie e draconiane, ad esempio per aver scaricato materiale religioso al telefono, avere la barba lunga o per una donna portare il velo.
Il totale dei detenuti di etnia uighur o kazaka sarebbe di almeno un milione. Si parla anche di separazione dei figli dai genitori; del divieto sia di libri islamici che di celebrare i Ramadan; di torture; di indottrinamento. Nella Contea di Konasheher ci sarebbe addirittura un record mondiale di detenzioni pro capite: un residente ogni 25 in galera. Circa 10.000 detenuti per 267.000 abitanti, per condanne comprese tra i 2 e i 25 anni. Media 9. Ma se ci riferisce solo ai membri di minoranze etniche, si sale al 12%.
DALAI LAMA
Non c'è però solo il Xinjiang. Il Tibet, invaso nel 1950, fu sottoposto a un protettorato che divenne annessione dopo la repressione della rivolta del 1959, quando il Dalai Lama andò in esilio. Il regime cinese ammette che in quel conflitto furono uccisi 87.000 tibetani, ma secondo il Governo Tibetano in Esilio, almeno 1.200.000 tibetani sono morti per causa diretta o indiretta dell’invasione, e il 95% dei 6.259 templi, monasteri e luoghi di culto è stato distrutto.
Nel 1960 la Commissione Internazionale dei Giuristi di Ginevra parlò di «decine di migliaia di tibetani... percossi a morte, fucilati, crocefissi, arsi vivi, annegati, torturati, strangolati, sepolti vivi, gettati nell’acqua bollente, decapitati». Dal 1987 moti e sommosse si succedono di nuovo nel territorio tibetano. Particolarmente gravi sono stati quelli del 1989 e del 2008, in concomitanza rispettivamente coi moti della Tienanmen e con le Olimpiadi di Pechino. A febbraio, cinque esperti delle Nazioni Unite hanno scritto al governo cinese esprimendo preoccupazione sui programmi di trasferimento di manodopera, in base ai quali milioni di contadini tibetani sarebbero stati allontanati dalle loro case e dai mezzi di sussistenza tradizionali e collocati in lavori manifatturieri poco qualificati e poco retribuiti. Gli esperti hanno osservato che la pratica potrebbe avere un impatto negativo sulle lingue minoritarie tibetane, sulle pratiche culturali e sulla religione e potrebbe equivalere a tratta di persone per il lavoro forzato. Anche in Mongolia Interna ci sono state varie ondate di proteste: nel 2011, per la morte di un mandriano, investito mentre tentava di fermare un convoglio di mezzi pesanti carichi di carbone intento a passare attraverso le praterie; nel 2017; nel 2020, con 300,000 studenti che hanno scioperato contro il progetto governtivo di sopprimere gradualmente l’insegnamento del mongolo nelle scuole. Nel 2018 vi fu anche una rivolta dei musulmani hui, contro la demolizione di una moschea.
Negli ultimi anni è stata però soprattutto dura la repressione a Hong Kong, dove sono stati del tutto svuotati gli spazi di democrazia promessi con la retrocessione dal Regno Unito, all'insegna dello slogan “un Paese due sistemi”. In cinque anni si è arrivati a oltre 1800 prigionieri politici, su 7 milioni e mezzo di abitanti. Politici, giornalisti, avvocati, professori, la maggior parte di loro fermamente non violenti. Il precedente ha ovviamente del tutto fatto sparire ogni volontà dei taiwanesi di credere alle proposte di Pecino su una riunificazione anch’essa sulla base dell’“un Paese due sistemi». La Cina ha allora iniziato pesantemente a vessare l’“isola ribelle”, con continue incursioni di aerei e navi.
TUTTI OPPRESSI
Ma a parte la repressione di minoranze e regioni, in Cina c'è un sistema oppressivo che si estende a tutto il Paese, e che è definito laogai. Un universo di lavoro forzato che nel 2008 contava almeno 1422 campi. Diverse fonti sostengono che nei campi di lavoro vengano comunemente applicati la tortura, la rieducazione politica e che vi sia un alto grado di mortalità dei prigionieri riconducibile a maltrattamenti di vario tipo, e il regime farebbe anche traffico di organi dei reclusi. Almeno 8 milioni di persone vi sarebbero recluse.
Anche gruppi religiosi come i cattolici fedeli a Roma e la setta Falun Gong sono duramente repressi. E almeno 200 attivisti per i diritti umani sono stati arrestati dal 2015 in base a una legge adottata in quell’anno.
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