Breve storia delle bugie rosse sugli Stati Uniti
Editoriale di Daniele Capezzone
Testata: Libero
Data: 23/07/2024
Pagina: 1/5
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: Negli anni dei presidenti Dem la stampa progressista è sempre latte e miele. Fiumi di inchiostro per celebrare il clintonismo o per spiegarci che Biden era lucidissimo e pimpante

Riprendiamo da LIBERO di oggi 23/07/2024, a pag. 1/5, con il titolo "Negli anni dei presidenti Dem la stampa progressista è sempre latte e miele. Fiumi di inchiostro per celebrare il clintonismo o per spiegarci che Joe Biden era lucidissimo e pimpante", l'editoriale di Daniele Capezzone. 

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

Biden "lucidissimo e pimpante" per i media progressisti. Salvo poi doversi ritirare dopo il ko tecnico del primo dibattito televisivo. E' solo l'ultimo dei grandi esempi di come i media facciano politica militante nella sinistra, un andazzo iniziato ai tempi di Reagan.

Si potrebbe andare ancora più indietro nel tempo, ma, fissando arbitrariamente una data simbolica di partenza, potremmo dire che molto inizia giovedì 6 novembre 1980, con la prima pagina dell’Unità, organo del Pci, che annuncia con tono funereo l’elezione di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti. Titolo: «Inquietudine nel mondo per la vittoria di Reagan». Occhiello: «Un’America delusa e in crisi esprime un voto essenzialmente negativo». Sommario: «Si fa pressante la necessità di nuove iniziative di pace». Ah sì? E chi con chi intendevano farle i comunisti italiani queste brillanti iniziative di pace? Elementare, Watson: abbracciati a Breznev, e finanziati da Mosca.
Ecco, per stare solo agli ultimi 44 anni, è sempre andata così. Ogni volta che vinceva (o poteva vincere) un repubblicano, i nostri compagni hanno descritto le elezioni americane come un incubo, una fonte di ansia per il mondo, un motivo di angoscia per la parte buona dell’umanità (cioè loro stessi). Al contrario, ogni volta che a vincere (o a essere in vantaggio) era un democratico, allora la musica cambiava: «Siamo tutti americani», «yes we can», la poetica del «nuovo inizio», e via veltroneggiando o riotteggiando a piacere.
Quindi, ricapitoliamo: America bestia nera se si colora di rosso (sapete che lì i colori politici sono invertiti rispetto alle nostre tradizioni, e il rosso è il colore dei repubblicani). E allora male Bush padre («guerrafondaio», pontificavano gli amici nostrani di Saddam), malissimo Bush figlio («più guerrafondaio del padre», rincaravano, e per giunta sostenuto dai “perfidi” neocon, pensatori che, avendo ragione su quasi tutto, sono stati demonizzati in Europa e descritti come una pericolosa cabala di esportatori di democrazia, pensate che “crimine”). E ancora peggio Trump, a cui però da sinistra veniva e viene mossa l’accusa uguale e contraria contestata agli altri nelle occasioni precedenti: a quelli si rimproverava il progetto di promozione globale della democrazia, a lui si imputa un presunto eccesso di isolazionismo. Morale: non va bene niente, né “freedom first” né “America first”. Comunque si muovano, i repubblicani sono tutti e invariabilmente fascisti.

STAGIONE OBAMIANA

E invece, negli anni delle amministrazioni dem, era tutto latte e miele. Fiumi di inchiostro per celebrare il clintonismo, con i nostri dalemiani al seguito. E poi lirismo puro per la stagione obamiana: con fallimenti spettacolari (le primavere arabe, la ritirata morale da mezzo mondo, gli inchini ai tiranni iraniani) presentati come trionfi.
E infine concerti di viole-violini-violoncelli (ma oltre agli archi, c’erano gli immancabili tromboni) per spiegarci che Joe Biden era fichissimo-lucidissimo-pimpantissimo, salvo poi (oplà), dopo il ko tecnico subìto il 27 giugno scorso nel dibattito con Trump, dare vita a una forsennata campagna per mandarlo a casa con ignominia.
Lo zelo doppiopesista è stato tale da celebrare perfino una sconfitta (che, nel racconto mainstream, doveva essere una vittoria annunciata): quella di Hillary Clinton nel 2016. Più Trump saliva nei sondaggi, più l’Inviato Unico e il Corrispondente Collettivo ci raccontavano il contrario. Dopo il trionfo trumpiano e la Caporetto clintoniana, sarebbero servite (a essere gentili) le dimissioni o almeno lunghissime vacanze di una cinquantina tra direttori, editorialisti, inviati, “esperti” assortiti, più gli immancabili eterni ciambellani del potere.
Per mesi, qui in Italia parlando dell’America, avevano raccontato a lettori e telespettatori un mondo parallelo, lontano dal vero. Erano in malafede; ma è perfino peggio farsi sfiorare dall’idea che invece fossero in buona fede e tifassero, pronti a propinarci più i loro desideri che i fatti.

TWEET COMPULSIVI

Durante i faccia a faccia televisivi Trump-Clinton, restano memorabili i loro tweet compulsivi pro-Hillary, la loro “ola” in curva, le patetiche illusioni («Hillary ha vinto i dibattiti»), quando invece sarebbe stato necessario uno sforzo meno partigiano per capire, per provare a comprendere cosa stava accadendo nell’America profonda. Siamo sempre lì: a una tragica incapacità di rassegnarsi alla realtà (quando non piace), o quando essa osa sfuggire ai loro schemi, anzi ai loro schemini. Esattamente come era successo per Brexit, né più né meno. In questo 2024, non sembra cambiato nulla.
Su queste colonne (oasi di non-conformismo), ne scriviamo già da mesi, sottolineando l’incapacità dell’establishment (al di qua e al di là dell’Atlantico) di comprendere le ansie, le paure, le esigenze dei ceti medi e medio-bassi, trattati con disprezzo e quasi relegati in una diversa antropologia. Trump sarà pure rozzo, ma ha offerto attenzione a quell’America impoverita e bianca (trattata dai media progressisti come una feccia di sdentati), e si è trasformato nello strumento della vendetta di quei cittadini.
Ricordate la gaffe di Hillary nel 2016 sui deplorables, cioè sugli elettori di Trump definiti appunto «miserabili»? Quella frase resta come epitaffio di un’intera classe dirigente. Tornando all’oggi, da qui a novembre tutto può ancora succedere: le campagne elettorali Usa sono incerte per definizione, e nessuno può ritenersi vincitore già a fine luglio.
Resta il fatto che qui a Libero ci divertiremo e tenteremo di informarvi, non nascondendo anche le incognite legate a una nuova vittoria di Trump. Altrove – temo – si divertiranno meno, smerceranno propaganda, e dovranno forse constatare un’altra volta come la prosaica realtà sia fatta da una materia diversa rispetto alle loro poetiche illusioni. Auguri a tutti. 

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