Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 22/07/2023, a pag. 26, con il titolo "Quel giorno buio in cui gli ebrei lasciarono Rodi" l'analisi di Marcello Pezzetti.
«La vita a Rodi era un paradiso. La città divisa in quattro quartieri: quello ebraico, quello turco, quello greco e poi col tempo vennero gli italiani». (Rahamin Cohen). «Era una vita bellissima, quieta, calma, nessuno ci disturbava» (Stella Franco). «Il nostro nonera un ghetto, era un quartiere liberissimo; ognuno poteva uscire liberamente come qualsiasi non ebreo» (Joseph Varon). «A Rodi, c’erano le prigioni. Nessun ebreo è mai entrato in una prigione, mai. Neanche uno» (Alberto Israel). Questo il ricordo di Rodi, l’“isola delle rose”, di alcuni ebrei sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz. Rodi, per secoli parte dell’Impero Ottomano, con le isole del Dodecaneso nel 1912 era stata occupata dagli italiani, che nel 1924 ne ottennero la sovranità. Questi, da subito, giudicarono la comunità ebraica locale, composta da oltre 4.500 persone, «ligia alle leggi », dunque affidabile. Quando ne ebbero la possibilità, quasi tutti gli ebrei scelsero la cittadinanza italiana, pur mantenendo come madrelingua il ladino (giudeo-spagnolo). «Abbiamo passato degli anni bellissimi con gli italiani» (Rachele Cohen). Nonostante gli ottimi rapporti con l’amministrazione italiana, a causa della mancanza di lavoro molti giovani emigrarono negli Usa, in Sudamerica, nel Congo Belga, in Rhodesia del Sud e in Palestina, per cui la comunità si dimezzò. «La maggior parte dei ragazzi partiva perché non c’era avvenire per loro sull’isola. Incominciavano a lavorare e una volta più o meno sistemati mandavano a cercare una ragazza di Rodi » (Lea Gattegno). La situazione cambiò bruscamente nel 1938, quando venne estesa anche nel Dodecaneso la legislazione antiebraica. «Mi hanno detto: “Tu non sei più italiano, non vai più alla scuola italiana, sei fuori dalla scuola, fuori dal palazzo del fascio, fuori da tutto!”. Ti tolgono qualcosa a cui vuoi bene… fa male, fa molto male» (Alberto Israel). Nel 1943, nei giorni successivi all’8 settembre, gli italiani – 35mila militari contro poco più di 7mila tedeschi – incredibilmente capitolarono e l’isola passò saldamente nelle mani delle forze di occupazione tedesche, che lasciarono comunque in vita un governo italiano collaborazionista. Per dieci mesi, tuttavia, le autorità naziste non diedero l’impressione di occuparsi della comunità ebraica locale, che visse questo periodo nella più irreale ingenuità. Il pericolo sembrava venisse solo dai bombardamenti degli inglesi, che nella primavera del 1944 colpirono più volte il quartiere ebraico, vicinissimo al porto, provocando diversi morti. Molti ebrei, conseguentemente, abbandonarono il quartiere e si rifugiarono nei villaggi vicini. Nel frattempo, in quelle settimane gli italiani completarono un elencodegli ebrei residenti nell’isola, per passarlo alle autorità tedesche. I nazisti avevano in ogni caso già stabilito la sorte che sarebbe toccata alla comunità ebraica, nonostante la guerra fosse ormai persa. Ad organizzare gli arresti e la deportazione furono il responsabile del Servizio di sicurezza di Atene Anton Burger, uomo di Eichmann, già Comandante del campo-ghetto di Theresienstadt, e il Comandante delle forze armate tedesche dell’isola, il generale Ulrich Kleemann. Il 18 luglio fu diffuso l’ordine, per tutti gli ebrei dell’isola di sesso maschile di età superiore ai 15 anni, di presentarsi allaKommandantur per un controllo dei documenti. «È venuta una macchina decappottabile e c’erano due o tre tedeschi delle Ss, della Gestapo e un ebreo greco. Lui parlava il ladino e disse: “Dovete fare un controllo delle carte d’identità perché siete tutti sparsi. Venite domani all’aviazione e vi daremo la nuova carta d’identità. Era un traditore, quelfiglio di puttana» (Alberto Israel). Il giorno seguente toccò alle donne e ai bambini. «Fuori dalla caserma c’erano un sacco di donne che piangevano e si disperavano. Poi esce il presidente della Comunità e dice che anche tutte le donne con i figli avrebbero dovuto presentarsi il giorno dopo, con il necessario, piccoli bagagli e tutti i gioielli» (Stella Levi). «Quello che faceva l’interprete diceva “non succederà niente, i tedeschi si comporteranno bene con voi, vi porteremo in un’isola presso Rodi e starete lì fino alla fine della guerra…”. Eravamo brava gente… e ci abbiamo creduto» (Stella Franco). «Ci siamo consegnati, che altro ci rimaneva da fare? Non è che ci fosse un posto poi dove scappare, dove nascondersi » (Virginia Gattegno). «E dopo, man mano, dovevamo passare in fila a depositare i preziosi» (Rosa Levi). «Sa cosa hanno fatto molti? Sono andati nei bagni e hanno buttato lì tutti i gioielli. Perché avevano capito…» (Rachele Alhadeff). «Che sappia io, nessun italiano ha nascosto ebrei. E questo è grave: questo popolo che io ammiravo tanto, così pieno di umanità in tante occasioni, ci ha abbandonato» (Stella Levi). In quegli stessi giorni, il giovane console turco, Selâhattin Ülkümen, intervenne con notevole coraggio presso le autorità naziste per impedire la deportazione degli ebrei in possesso della cittadinanza turca, facendo leva sulla neutralità del suo Paese. Ne furono individuati 42, e questi si salvarono. Il 22 luglio, con le vittime ancora sull’isola, venne ordinato il sequestro di tutti i loro beni, mobili e immobili. Il 23 luglio, nello stesso giorno in cui le truppe sovietiche liberavano il campo di sterminio di Majdanek, fu dato l’ordine di imbarco. «Domenica 23 luglio i signori tedeschi fanno partire le sirene, come se ci fosse un bombardamento. Tutti dovevano andare in un rifugio, ma era una messa in scena. Noi, ci hanno messi in fila per cinque, e dovevamo tenere la testa bassa » (Sami Modiano). «La città eramorta. Al porto c’erano tre caicchi e hanno messo quasi 600 persone in ognuno» (Alberto Israel). Ed ebbe inizio il viaggio più lungo di tutte le deportazioni naziste. «C’erano ancora gli escrementi delle bestie che avevano portato prima, e urina dappertutto. Ma là dentro non c’erano animali, maiali, capre, ma persone, vecchi con i loro malanni, bambini, neonati, mamme che allattavano, donne che aspettavano…» (Sami Modiano). «Dove ci hanno messi dentro, pidocchi grandi così…» (Stella Benveniste). «Dormivamo a turno sopra le spalle di mamma e di papà» (Rosa Cappelluto). «Ci sono stati morti… abbiamo dovuto buttarli a mare» (Sami Modiano). «Eravamo lì come ipnotizzati. Non capivamo più cosa succedeva» (Alberto Israel). All’arrivo al Pireo, il responsabile dell’Ufficio dei trasporti annunciò, dopo un controllo, l’arrivo di navi con il seguente carico: «Otto tonnellate di uvette, 37 di vitelli, 82 di carbone, 37 di attrezzi, 14 di oggetti di valore 298 di recipienti vuoti e rottami, 33 soldati e 1733 ebrei». Vennero portati tutti nel carcere ateniese di Haïdari, per gli ebrei del territorio il campo di transito per Auschwitz. Qui, dove non pochi morirono, rimasero dal 31 luglio al 3 agosto. «Il primo morto ammazzato l’abbiamo avuto ad Haïdari: un uomo che ha cercato di prendere dell’acqua da una fontanella per i suoi figli piccoli» (Sami Modiano). «Non c’era l’acqua, non ci siamo lavati neanche la faccia. Tutto puzzava, tutto sporco, ma non era colpa nostra» (Stella Franco). «Mio nonno è morto di sete lì a Haïdari» (Matilde Cohen). Il 3 agosto, dalla stazione ferroviaria di Atene iniziò l’ultima parte del trasporto, forse ancor più allucinante, che sarebbe durata quasi 10 giorni. «Tutti ammassati, ci si sdraiava a turno. Non mi ricordo facendo leva sulla neutralità del suo Paese. Ne furono individuati 42, e questi si salvarono. Il 22 luglio, con le vittime ancora sull’isola, venne ordinato il sequestro di tutti i loro beni, mobili e immobili. Il 23 luglio, nello stesso giorno in cui le truppe sovietiche liberavano il campo di sterminio di Majdanek, fu dato l’ordine di imbarco. «Domenica 23 luglio i signori tedeschi fanno partire le sirene, come se ci fosse un bombardamento. Tutti dovevano andare in un rifugio, ma era una messa in scena. Noi, ci hanno messi in fila per cinque, e dovevamo tenere la testa bassa » (Sami Modiano). «La città eramorta. Al porto c’erano tre caicchi e hanno messo quasi 600 persone in ognuno» (Alberto Israel). Ed ebbe inizio il viaggio più lungo di tutte le deportazioni naziste. «C’erano ancora gli escrementi delle bestie che avevano portato prima, e urina dappertutto. Ma là dentro non c’erano animali, maiali, capre, ma persone, vecchi con i loro malanni, bambini, neonati, mamme che allattavano, donne che aspettavano…» (Sami Modiano). «Dove ci hanno messi dentro, pidocchi grandi così…» (Stella Benveniste). «Dormivamo a turno sopra le spalle di mamma e di papà» (Rosa Cappelluto). «Ci sono stati morti… abbiamo dovuto buttarli a mare» (Sami Modiano). «Eravamo lì come ipnotizzati. Non capivamo più cosa succedeva» (Alberto Israel). All’arrivo al Pireo, il responsabile dell’Ufficio dei trasporti annunciò, dopo un controllo, l’arrivo di navi con il seguente carico: «Otto tonnellate di uvette, 37 di vitelli, 82 di carbone, 37 di attrezzi, 14 di oggetti di valore 298 di recipienti vuoti e rottami, 33 soldati e 1733 ebrei». Vennero portati tutti nel carcere ateniese di Haïdari, per gli ebrei del territorio il campo di transito per Auschwitz. Qui, dove non pochi morirono, rimasero dal 31 luglio al 3 agosto. «Il primo morto ammazzato l’abbiamo avuto ad Haïdari: un uomo che ha cercato di prendere dell’acqua da una fontanella per i suoi figli piccoli» (Sami Modiano). «Non c’era l’acqua, non ci siamo lavati neanche la faccia. Tutto puzzava, tutto sporco, ma non era colpa nostra» (Stella Franco). «Mio nonno è morto di sete lì a Haïdari» (Matilde Cohen). Il 3 agosto, dalla stazione ferroviaria di Atene iniziò l’ultima parte del trasporto, forse ancor più allucinante, che sarebbe durata quasi 10 giorni. «Tutti ammassati, ci si sdraiava a turno. Non mi ricordo che abbiamo parlato. Ci si teneva vicini e basta» (Virginia Gattegno). «Mia mamma è stata tutti quei giorni seduta per terra abbracciata a me che ero tra le sue gambe, con le mani attorno alla mia testa, senza muoversi, con una temperatura nel vagone di oltre 40 gradi» (Alberto Israel). «La disgrazia che è capitata più forte è questa: eravamo accompagnati anche da soldati italiani che avevano aderito ai tedeschi» (Rahamin Cohen). E poi, il 16 agosto, l’arrivo ad Auschwitz- Birkenau. «Poi siamo arrivati... eravamo già più morti che vivi... » (Virginia Gattegno). Sulla rampa, il medico delle Ss di turno eseguì la tristemente famosa “selezione iniziale”: i giovani vennero divisi dagli anziani e dai “non abili al lavoro”, e alcune giovani madri dai loro piccoli. Degli oltre 1.700 ebrei “selezionati”, 346 uomini e 254 donne furono immessi nel campo; gli altri vennero inviati alla morte col gas. Tornarono in 178, 135 donne e 43 uomini. Il 16 agosto l’antica e mite comunità ebraica di Rodi finì di esistere.
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