Riprendiamo da LIBERO di oggi 16/07/2024, a pag. 1/3, con il titolo "Odiano l'America profonda più ancora di Trump. Perché odiano la libertà", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
È più forte di loro: e “loro” – questo i lettori di Libero lo sanno bene – sono i compagni della sinistra. Divisi su mille cose, sempre litigiosi, qualcuno rosso, qualcuno rosé, qualcuno fucsia, qualcuno arcobaleno, ma tutti profondamente uniti dal cemento dell’odio politico, da un istinto distruttivo che li porta a condividere i nemici, i bersagli da colpire.
Certo, detestano Trump, autentica reincarnazione di uno dei loro peggiori incubi: vedono in lui un Berlusconi ancora più potente e con meno freni inibitori, con il pugno al cielo invece che con il sole in tasca.
Ma questo sentimento feroce, viscerale, totalizzante verso Trump è tutto sommato un odio consapevole: a sinistra se lo sentono scorrere nelle vene, e se ne rendono conto benissimo. C’è invece un altro odio, se possibile ancora più radicato e potente del primo, che forse è inconsapevole, meno esplicito, meno scoperto. Ecco il punto: ben più di Trump, i compagni odiano l’America.
La odiano da sempre: hanno perfino riscritto la storia del Novecento raccontando a se stessi che la Liberazione sia avvenuta solo grazie ai partigiani e non per il decisivo intervento dei soldati americani. E poi, naturalmente, odiano quel mix di capitalismo e libertà individuale che è da sempre il tratto distintivo degli Stati Uniti.
AI TEMPI DI BARACK
Ogni tanto si prendono delle pause quando a vincere è uno che sentano più vicino. E allora, con Obama presidente, erano tutti americani. Le giaculatorie e gli slogan li conoscete bene: yes we can, la storia siamo noi, un nuovo inizio, e via veltroneggiando in camicia Brooks Brothers. Ma al di là di queste momentanee parentesi, e soprattutto quando alla Casa Bianca c’è (o può esserci) un repubblicano, l’America torna a essere la solita bestia nera.
Riguardatela la prima pagina dell’Unità il giorno dell’elezione di Ronald Reagan. Titolo: “Inquietudine nel mondo per la vittoria di Reagan”. Occhiello: “Un’America delusa e in crisi esprime un voto essenzialmente negativo”. Sommario: “Si fa pressante la necessità di nuove iniziative di pace”. Ah sì? E chi con chi intendevano farle i comunisti italiani queste brillanti iniziative di pace? Elementare, Watson: abbracciati a Breznev, e finanziati da Mosca.
Decennio dopo decennio, hanno detestato tutto e tutti (a destra): Bush padre, Bush figlio, e naturalmente Trump. Ma più ancora di ciascuno di questi leader, a sinistra detestano l’America profonda. Sempre veltronianamente, possono forse amare New York, i suoi giornaloni progressisti, e per altro verso Hollywood con le sue stelle e i suoi vipponi woke. Ma tutto ciò che sta in mezzo, l’immenso spazio compreso tra la East e la West Coast, cioè l’America reale, resta un oggetto misterioso verso il quale la diffidenza è assoluta e l’ostilità istintiva.
Chi sono mai questi uomini e donne dell’America profonda? Sono quelli che mandano i loro figli ad arruolarsi nell’esercito a stelle e strisce, sono quelli che viaggiano poco all’estero, sono quelli che credono nella libertà di possedere armi per difendere se stessi, le loro famiglie e la loro proprietà. Sono quelli che non vogliono un’immigrazione fuori controllo, che chiedono tasse basse, che (saggiamente) diffidano di una presenza eccessiva e intrusiva dello stato, del pubblico, della politica. Sono quelli che provano un naturale e vivissimo sentimento religioso, che convive con l’aspirazione alla libertà e non sfocia nel clericalismo: le convinzioni religiose si dispiegano liberamente nella dimensione pubblica senza bisogno di essere statalizzate.
Ecco: tutto questo alla nostra sinistra fa istintivamente (e istantaneamente) schifo. Parlano di “due Americhe”: con il piccolo dettaglio che una di esse (quella progressista, woke, politicamente corretta) si ritiene in diritto e in dovere di disprezzare l’altra, di trattarla come una mandria di belve con le corna in testa, di esaltati, di ignoranti, di sdentati.
Poi però – ma guarda... – si sorprendono se improvvisamente arriva qualcuno come Trump (già nel 2016) che si è posto l’obiettivo di dar voce a questi dimenticati (i forgotten men, appunto), di interpretarne i sentimenti e le ragioni, facendosi “bridge”, cioè ponte, tra quell’immenso popolo e istituzioni sempre più lontane ed autoreferenziali. Altro che populismo deteriore: il migliore trumpismo è semmai un estremo tentativo di incanalare e offrire una qualche prospettiva a quella rabbia. Ma a sinistra nemmeno si pongono il problema: sono troppo impegnati a insultare e criminalizzare sia lui, Trump, l’uomo arancione, sia i suoi sostenitori, trattati appunto come hooligans impresentabili.
QUANTA IPOCRISIA
Si spiegano così le reazioni isteriche di queste ore successive all’attentato in Pennsylvania, tra finta solidarietà e ardente desiderio di trovare il modo di colpevolizzare la vittima. Mutatis mutandis, è un po’ l’equivalente di quello che è accaduto – sempre a sinistra – dopo l’orrendo pogrom antiebraico del 7 ottobre: il 7 sera e poi l’8 si sono dedicati a inviare a Israele le proprie condoglianze e a condannare Hamas, ma dal 9 ottobre hanno ricominciato (come e più di prima) ad alimentare e veicolare una profonda ostilità verso ciò che Israele e Netanyahu (non a caso affratellato a Trump nel disprezzo dei progressisti) rappresentano.
È una storia semplice. Negano di odiare l’America. Ma la verità è che la vorrebbero simile all’Europa e a loro stessi: proprio ciò che l’America non è mai stata, non è e non può essere. E allora la detestano.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/99966200, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@liberoquotidiano.it