Le grida di Byai Phu 09/06/2024
Commento di Ben Cohen
Autore: Ben Cohen

Le grida di Byai Phu
Commento di Ben Cohen
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/the-cries-of-byai-phu/

Scoperti gli orrori in Myanmar, a Byai Phu i prigionieri vengono sistematicamente torturati dall'esercito. Ma non è violenza contro i palestinesi, quindi l'opinione pubblica si volta dall'altra parte.

Civili costretti a stare seduti all'aperto per due giorni, senza viveri, sotto un sole cocente. Soldati che consegnano bottiglie piene della propria urina a coloro che implorano acqua. Uomini con tatuaggi ritenuti politicamente offensivi urlano in agonia mentre la loro pelle viene scarnificata con benzina accesa. Soldati, molti dei quali ubriachi, chiedono pale per seppellire i corpi di coloro che hanno giustiziato. Donne, uomini e bambini picchiati brutalmente mentre rispondono alle domande poste loro dai soldati, indipendentemente da ciò che effettivamente usciva dalla loro bocca. Vorrei potervi fornire i dettagli della manifestazione organizzata questo fine settimana per protestare contro queste orribili atrocità, ma non ce n'è una. Questi orrori non hanno afflitto i palestinesi di Gaza e non sono stati compiuti dalle truppe israeliane. Sono avvenuti nel villaggio di Byai Phu, nello stato di Rakhine, nell’estremo ovest della Birmania, il Paese dell’Asia orientale ribattezzato “Myanmar” in seguito a un colpo di Stato militare nel 1989. Un resoconto di queste atrocità - non è la prima volta che accade qualcosa di simile durante la brutale guerra civile che infuria da tre anni e probabilmente non sarà l'ultima - è stato nascosto la settimana scorsa in un angolo del sito web della BBC News, dove mi è capitato di imbattermi per caso. Tutti, a quanto pare, hanno sentito parlare di Rafah, ma pochi conoscono Byai Phu, e coloro che ne sentono parlare adesso probabilmente dimenticheranno il suo nome entro un giorno o due. Sì, la vita è crudele e per milioni di persone in tutto il mondo è una lotta incessante per mantenere se stessi e le proprie famiglie in vita e a galla in mezzo alla crisi economica, alla guerra e alla repressione politica. Ma questa osservazione piuttosto banale non può, non deve, essere l’ultima parola. Lasciatemi invece parlare chiaramente e senza mezzi termini. La causa della Palestina è diventata l’emblema della malattia che affligge la cultura occidentale. È diventata una fissazione e un’ossessione, alimentata dalla ridicola idea che la presenza di uno Stato ebraico e l’assenza di uno Stato palestinese “dal fiume al mare” sia l’unica spiegazione per la persistenza di lotte e conflitti nel mondo di oggi. Il terribile vizio che è la visione con il paraocchi è diventata una virtù, qualcosa di sacro, e la sfida a questo dogma ti farà “cancellare” negli ambienti progressisti. Per i rappresentanti del terrorismo iraniano in Medio Oriente, questo stato di cose è motivo di gioia. “Significativamente, i giovani britannici hanno mostrato maggiore interesse per lo svolgersi della guerra a Gaza che per altri conflitti globali”, ha osservato il sito web pro-Hezbollah Al-Mayadeen nel suo rapporto su un sondaggio d’opinione del 5 giugno, che mostrava che il 54% dei britannici tra i 18 e i 24 anni credono che Israele non abbia il diritto di esistere, rispetto al 21% della stessa fascia di età che pensa il contrario. Lo stesso articolo esaltava la statistica secondo cui il 38% dei giovani britannici è “molto interessato” alla guerra a Gaza, mentre solo il 19% pensa lo stesso riguardo all'invasione illegale dell'Ucraina da parte della Russia. Periodicamente abbiamo visto sondaggi altrettanto preoccupanti su come viene considerato Israele nel primo quarto del secolo attuale. Ma quel che c’è di diverso e che rende la domanda “perché?” più urgente ora che mai, è che Israele si trova ad affrontare una minaccia esistenziale imminente da parte dell’Iran e dei suoi alleati regionali. Ciò che è diverso è anche che gli Stati autoritari del mondo sono molto più incoraggiati ora rispetto a 20 anni fa, sostenuti dalla puerile idea diffusa tra molti occidentali che non vi sia alcuna differenza essenziale tra un Paese come gli Stati Uniti e uno come la Corea del Nord. Se dovessi chiedere allo stesso pubblico se credono che la Corea del Nord, che in passato ho descritto come “non tanto un Paese, ma un campo di concentramento con un seggio alle Nazioni Unite”, abbia il diritto di esistere, la mia supposizione fondata è che la risposta sarebbe "sì" o ci sarebbe in primo luogo perplessità per il fatto che la domanda sia stata posta.

Non vorrebbero sapere e non gli importerebbe che la Corea del Nord sia un’entità artificiale creata alla fine della guerra di Corea, o che lo Stato esiste per servire il suo dittatore incontrastato, Kim Jong-un, e la sua cerchia ristretta. Allo stesso modo, il fatto che una delle forme più grottesche di tortura praticate in Corea del Nord coinvolga i detenuti costretti a guardare le loro famiglie picchiate e stuprate, non disturberebbe molti di questi Suprematisti palestinesi, soprattutto perché la Corea del Nord sostiene apertamente i palestinesi. Parte della spiegazione di ciò è, ovviamente, l’antisemitismo, che si modella abilmente per adattarsi alle agende politiche di ogni nuova generazione.

È anche radicato il concetto che gli esseri umani non sono fondamentalmente uguali e ugualmente meritevoli degli stessi diritti umani e civili, indipendentemente da dove vivono. La brutta vena autoritaria che attraversa gli ambienti progressisti in questi giorni determina che lo Stato – e non l’individuo – è fondamentale. Se un individuo perseguitato o terrorizzato sembra essere cittadino di uno Stato dannato in quanto alleato dell’imperialismo occidentale, allora si merita ciò che gli succede. Non sono solo gli israeliani, e per estensione, le comunità ebraiche della diaspora, a soffrire di questa distinzione; anche gli ucraini, i curdi e le varie etnie birmane sono tra coloro che ne hanno sofferto. “Tutti gli occhi” sono puntati su Rafah perché Rafah è nel mirino di Israele, e Israele è, secondo questo schema, il collegamento tra la violenza della polizia contro i neri in America, o contro le comunità musulmane in Europa, e i palestinesi, che -  proprio come Gesù Cristo - soffrono per tutti noi.

Entro la fine di quest’anno, se non prima, Israele potrebbe ritrovarsi impantanato in una nuova guerra in Libano dal momento che Hezbollah non mostra alcun segno di voler porre fine alla sua campagna terroristica volta a rendere il nord di Israele una zona invivibile. Qui sta il problema. La prima responsabilità di Israele è proteggere i suoi cittadini, ma ogni volta che lo fa, la sua reputazione viene ulteriormente sminuita. Mentre i tentacoli della piovra iraniana – Hamas, Hezbollah, i ribelli Houthi dello Yemen, le milizie islamiste in Siria e Iraq – si stringono attorno al collo di Israele, l’amara realtà è che molti dei nostri vicini si godranno lo spettacolo. Il discorso di pace e uguaglianza è stato sostituito da un feticcio per la guerra (“resistenza”) e la classificazione di razza e religione (“liberazione”).  Questa è una brutta notizia per noi, ma una notizia persino peggiore per la gente di Byai Phu.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate