Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/06/2024, l'analisi di Anna Zafesova a pag. 18, con il titolo "Oblio Navalny".
Anna Zafesova
«Alexey, sarai sempre nei nostri cuori». «Ti amiamo». «47 anni per sempre». Il muro della memoria al concerto per il 48esimo compleanno di Alexey Navalny, si riempie rapidamente, e tutto va come dovrebbe andare: le lacrime, gli slogan antiputiniani scanditi dalla platea, la sensazione di essere uniti. Il 4 giugno, il popolo degli orfani di Navalny si è radunato in una chiesa di Berlino per la messa commemorativa voluta dalla vedova Yulia e dai suoi più stretti collaboratori, è apparso in alcune piazze dell'Europa, mentre in Russia qualcuno ha avuto il coraggio di andare alla tomba del politico, al cimitero Borisovskoe alla periferia di Mosca. In un mare di biglietti, pupazzi, disegni e fiori una frase rieccheggiava molto, troppo spesso: «Un giorno tutto questo finirà».
Il «tutto questo» non sembra però voler finire, come mostra il documentario del regista Andrey Loshak L'età del disaccordo: 2024. È il sequel, imprevisto e triste, di un altro film, girato nel 2018 sulla generazione dei giovani russi che Navalny aveva portato in piazza contro «tutto questo», quando non era ancora diventato «tutto questo», cioè una dittatura militare reazionaria. Sei anni dopo, Loshak è tornato a intervistare i protagonisti di quella che era sembrata l'inizio di una rivoluzione in piazza, e li ha trovati in esilio, o in carcere, «sperduti, spezzati, infelici». È il ritratto di una generazione perduta, e il tranquillo eroismo dei singoli – come le attiviste Lidia Chanysheva e Ksenia Fadeeva, condannate rispettivamente a 8 e a 9 anni per essersi candidate con Navalny – non riesce a nascondere il fallimento di una rivoluzione da compiere con Like sui social e una passeggiata in piazza a scandire slogan per la libertà.
La generazione dei nativi digitali globalizzati è stata macinata dal vecchio Gulag, mostruosamente efficace nella sua crudeltà analogica. Per ridare un senso e parole d'ordine, quel che resta del movimento navalniano ha deciso di gettare nello stagno già intorbidito dalle polemiche del dissenso russo un macigno: un film in tre puntate di un'ora, ciascuna su YouTube, dal titolo minaccioso I traditori, nel quale Maria Pevchikh, braccio destro di Navalny nelle sue indagini, spiega il tentativo di transizione verso la democrazia degli anni '90 come una sequela di ruberie. I «traditori» sono Boris Eltsin, i suoi oligarchi e i liberali russi, che avrebbero «rubato le ricchezze del popolo», per poi affidare a Vladimir Putin la gestione del bottino. Il documentario – basato prevalentemente su rivelazioni e accuse già note dei giornali dell'epoca – ha però generato un vespaio nella «bolla» dei dissidenti, anche perché non nasconde di voler essere un atto d'accusa dei giovani contro i «padri nobili» dell'opposizione, che ancora detengono la maggioranza nei vari comitati degli esuli russi.
Il risultato è che da un mese nei social russofoni non si parla di altro. E un personaggio come Mikhail Khodorkovsky – l'ex oligarca che dopo la morte di Navalny è tornato a sembrare quanto di più vicino a un leader che formula strategie e che parla con i governi occidentali – passa il tempo a giustificarsi e a spiegare che leggere la storia russa soltanto nella chiave della «o-nes-tà» è una semplificazione proposta a una generazione che non si ricorda né il comunismo né le difficoltà di emergere da sotto le sue macerie. Il problema, come scrive lo storico Mikhail Eidelshtein per la testata online VotTak, è che il movimento navalniano era partito dall'assunto che i cleptocrati putiniani «erano venuti solo per rubare..., ma era una diagnosi sbagliata: i ladri hanno sognato di entrare nei libri di storia, e si sono trasformati in carnefici».
Una trasformazione che molti «russi buoni» non hanno interiorizzato. Così come Pevchikh parla più di appartamenti e appalti truccati di Eltsin, che dei bombardamenti della Cecenia e delle cannonate sul parlamento di Mosca, molti preferiscono non discutere delle bombe su Kharkiv e dei bambini ucraini adottati forzatamente dai politici russi. La guerra in Ucraina è l'elefante nella stanza: troppo ingombrante, impossibile da cacciare, imbarazzante da gestire, in un misto di sensi di colpa, rifiuto di ammettere le nostalgie imperialiste anche di molti membri dell'intellighenzia, e indifferenza. Solo la metà del Comitato contro la guerra – dominato da dissidenti "anziani" – firma dopo la bomba sul centro commerciale di Kharkiv l'appello per permettere all'Ucraina di colpire il territorio russo, mentre sull'Instagram di Pevchikh molti seguaci attaccano gli ucraini che le chiedono di agire per aiutare il loro Paese.
Ma senza affrontare la tragedia della guerra non si riesce a pensare a un futuro, ed è per questo che la formula del «un giorno tutto questo finirà» – ormai quasi una sorta di saluto rituale tra molti antiputiniani – implica un cambiamento più da subire che da attuare. E così la figura di Navalny viene commemorata, nemmeno sei mesi dopo la morte, più come quella di un'icona del rock nostalgica che come un politico con un programma. E mentre Khodorkovsky invita i trentenni russi a «combattere e rischiare» sfidando il regime, nei social impazza la nuova canzone di Monetochka, la 26enne star antiputiniana, che rievoca ricordi «successi in Russia, quindi tanto tempo fa». Gli utenti montano i propri video di nostalgia per un passato recente quanto ormai impensabile, sulle parole «qualunque biglietto compri non c'è più un posto che sia mio», e si preparano a una vita di apolidi politici e morali: «Il mito della splendida Russia del futuro promessa da Navalny è finito», constata Andrey Loshak.
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