Riprendiamo da LIBERO di oggi, 05/06/2024, a pag. 15, con il titolo "Hamas rifiuta l’accordo per gli ostaggi", la cronaca di Amedeo Ardenza
Gli ostaggi, gli ostaggi e ancora gli ostaggi. La guerra in Israele non rallenta, i soldati caduti dal 7 ottobre sono 644, i civili uccisi almeno 1.200, il conflitto con Hamas è lontano dalla fine e gli scontri lungo il confine nord con Hezbollah aumentano ogni giorno di intensità.
Eppure il pensiero degli israeliani è tutto peri 121 ostaggi fra i quali non mancano le donne, gli anziani e i bambini nelle mani del terroristi della Striscia di Gaza. Pochi giorni fa si contavano 121 rapiti ma il numero di quelli che stanno morendo o sono stati uccisi dai loro carcerieri è in costante aumento: 43, secondo la stima resa nota ieri da Idf. Da cui la crescente pressione di gran parte dell’opinione pubblica israeliana affinché il governo si dia una sola priorità: liberarli. Lo scorso fine settimana anche la Casa Bianca si era fatta prendere dall’entusiasmo dando la tregua per vicinissima e guadagnando anche il sostegno del G7 ma in mancanza di un colpo di scena per l’intesa c’è ancora tempo.
IL SÌ DEGLI ORTODOSSI
I primi a respingere l’accordo che secondo Israele passerebbe comunque dall’eliminazione del gruppo radicale sono stati gli islamici di Hamas: «Abbiamo chiesto ai mediatori di ottenere una chiara posizione da parte d’Israele affinché si impegni per un cessate il fuoco permanente e un ritiro completo da Gaza», ha dichiarato da Beirut il rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan.
Ieri il fronte israeliani pro-tregua ha incassato il supporto dei due partiti ortodossi del governo del primo ministro Benjamin (Bibi) Netanyahu: gli askenaziti di United Torah Judaism (Utj) e i sefarditi (termine che qua include gli ebrei giunti in Israele dal mondo arabo) dello Shas. «Come nazione morale che santifica la vita sulla vittoria, la nostra priorità è prima di tutto portare gli ostaggi a casa vivi», ha dichiarato il ministro del Lavoro Yoav Ben Tzur dello Shas. Con lui Yitzhak Goldknopf, presidente di Utj: «Sosterremo qualunque proposta che porti alla liberazione dei rapiti». La doppia uscita fa crescere l’isolamento in seno alla maggioranza dei due partiti nazionalisti religiosi contrarissimi al dialogo con Hamas.
Gettando benzina sul fuoco, il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir del partito Otzma Yehudit, ha anzi minacciato di far passare la sfilata che celebra l’anniversario della conquista israeliana di Gerusalemme est durante la guerra dei Sei giorni (1967) dal monte del tempio ossia dalla spianata delle moschee secondo il nome usato dai fedeli musulmani. La capitale e città santa è già in stato d’assedio, con oltre 3.000 poliziotti schierati ma con la guerra ai confini l’ultima cosa di cui Israele ha bisogno è lo scoppio di tensioni con la minoranza di fede musulmana (il 18% dei cittadini) o di nuovi focolai di intifada in Cisgiordania.
Dall’altra parte dell’oceano, intanto, Joe Biden ha continuato nella sua rodata tattica di aiutare lo Stato ebraico nei fatti salvo criticarne il primo ministro a parole.
Quando il periodico Time gli ha chiesto se è vero che il conflitto Israele-Hamas si stia prolungando per colpa di Bibi, il presidente ha riposto «no comment» salvo aggiungere: «Ci sono tante ragioni per cui le persone arrivano a questa conclusione».
Nelle stesse ore il ministero della Difesa israeliano firmava un accordo da 3 miliardi di dollari con gli Usa per l’acquisto di un terzo squadrone di aerei da caccia F-35.
I velivoli saranno consegnati a partire dal 2028,in lotti da tre a cinque all’anno. Il Biden bifronte ha però anche difeso il poco amato Bibi dalle accuse di Donald Trump. Secondo l’ex presidente Netanyahu andrebbe criticato per non essere riuscito a contrastare efficacemente l'attacco del 7 ottobre. «Non so come qualcuno possa avere questa responsabilità», ha osservato Biden secondo il quale Bibi non è stato l'unico a non avere colto il pericolo incombente.
PRONTI ALL’AZIONE
Discussioni che lasciano il tempo che trovano: mentre Hamas resta un nemico coriaceo che ieri Israele ha attaccato in un’operazione congiunta terra-aria nella zona di al-Burej, nel centro della Stricia di Gaza, oggi il pericolo incombente per lo Stato ebraico è Hezbollah.
Gli sfollati israeliani in fuga dal nord colpito dai missili e dagli ancor più pericolosi obici anticarro esplosi della milizia libanese sono tra gli 80 e i 100 mila. Fra lunedì e martedì una pioggia di ogive incendiarie ha dato fuoco a numerosi distretti agricoli del nord. Ieri della minaccia senza fine dal Paese dei Cedri ha parlato il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi: «Ci si sta avvicinando al punto in cui dovrà essere presa una decisione in merito agli scontri con Hezbollah e le forze armate», ha sottolineato il generale, «sono pronte».
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