Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/05/2024, a pag. 4, con il titolo "Non si mescoli la lotta politica alla religione", il commento di Francesca Paci.
Francesca Paci
«Vorrei dire agli studenti italiani mobilitati per Gaza di fare molta attenzione a mescolare la lotta politica alla religione: l'esperienza dei miei genitori che nel 1979, da comunisti, marciarono con l'ayatollah Khomeini contro lo scià per ritrovarsi poi nelle prigioni della teocrazia islamica, racconta purtroppo come va a finire». Al pari di tanti iraniani attivisti del movimento "donna, vita, libertà", la cui protesta scalda assai meno di altre i cuori occidentali, il quarantanovenne Asghar vorrebbe veder nascere la Palestina ma non la Palestina di Hamas. È un tema che scotta.
La preghiera dell'imam Brahim Baya all'interno dell'università occupata di Torino ha acceso negli ultimi giorni un vivace dibattito sul concetto di laicità e sullo spazio pubblico da garantire alle diverse confessioni affinché la laicità non si trasformi in spigoloso laicismo. C'è però qualcos'altro da leggere in quella immagine di Palazzo Nuovo in cui alcune file di fedeli invocano la fine dell'assedio di Rafah inginocchiati verso la Mecca. E non è il soffermarsi di Baya sulla parola jihad, che in arabo, effettivamente, indica tanto la guerra santa (grande jihad) quando lo sforzo interiore dell'individuo per migliorarsi (piccolo jihad). C'è da leggere invece, e neppure troppo in controluce, l'islamizzazione profonda della questione palestinese che ha via via sequestrato, snaturandola, una legittima causa politica d'impronta anti-coloniale.
Quando nel 1987 scoppiava nel campo profughi di Jabaliya la prima intifada, quella delle pietre contro i carrarmati, Hamas non c'era ancora: il movimento islamico sarebbe nato nei mesi successivi sotto la spinta messianica dello sceicco Ahmad Yasin e con la ormai riconosciuta compiacenza dei servizi israeliani, abilissimi da subito nell'applicare il "dividi et impera" ai danni del nemico. Che piaccia o no alla storiografia sionista meno conciliante, la kefiah al collo e la tessera di al Fatah in tasca rappresentavano allora per tanti studenti occidentali, precipitati dalle utopie del '68 al piombo degli anni '70 e risaliti a galla con grossa fatica, il sostegno all'ultima guerra d'indipendenza dopo la decolonizzazione dell'Africa.
Non è più così da tempo. E non perché i palestinesi abbiano accantonato la rivendicazione della terra su cui edificare il proprio Stato. Tutt'altro. Il fatto è che nel frattempo il partito islamico, uscito illibato dall'ambizione e dal fallimento di Oslo, ha preso il sopravvento, complici anche la politica corrotta di al Fatah e il sabotaggio del processo di pace coltivato negli insediamenti oltre la linea verde, dove i coloni amplificano con la loro presenza il sogno della Grande Israele in modo speculare a quello di Hamas, "Dal fiume (Giordano) al mare".
Da alcuni anni, dopo la fiammata della seconda Intifada, quella dei kamikaze, la presenza tangibile di Hamas si respira forte nelle città palestinesi, anche in quelle più lontane da Gaza. A Ramallah, la capitale dell'Autorità nazionale palestinese nei cui caffè alla moda ragazze e ragazzi sedevano insieme sorseggiando il vino venduto legalmente nei negozi dei cristiani, le donne senza velo sono ormai una rarità. I morti negli scontri con gli israeliani sono martiri. L'invocazione all'indipendenza coincide con la preghiera del venerdì, Allah akbar.
La religione consola i disperati, si dirà. Ed è vero, per i palestinesi lo è di sicuro. Quando hai perso tutto non resta che la fede. Ma gli studenti occidentali, molti dei quali non reggerebbero un giorno sotto un regime islamico, no: loro farebbero bene a ragionare sul monito di Asghar.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/065681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@lastampa.it