Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/05/2024, a pag.2, con il titolo "I tank nel cuore di Rafah" il commento di Davide Frattini.
Davide Frattini
La linea rossa passa attraverso la cenere delle poche cose che gli sfollati palestinesi tenevano sotto le tende, attraverso i corpi ustionati, i 45 cadaveri raccolti all’obitorio. La linea rossa passa dalle parti della moschea Al Awda che a Rafah tutti conoscono perché sta nel centro della cittadina. Quei palazzotti e vicoli impolverati l’esercito israeliano avrebbe dovuto evitarli, almeno secondo le richieste che in questi mesi il presidente Joe Biden ha ripetuto a Benjamin Netanyahu. Come avrebbe dovuto evitare — «con qualsiasi mezzo», sono le parole del presidente americano — che nell’operazione venissero coinvolti i civili. Invece i carrarmati si muovono vicino alla moschea e lungo la frontiera con l’Egitto: le truppe stanno cercando di arrivare al Mediterraneo e controllare così tutta la fascia da est al mare.
Adesso Daniel Hagari, il portavoce delle forze armate, prova a spiegare che i due missili lanciati nella notte tra domenica e lunedì per eliminare due capi di Hamas «non avevano potenza esplosiva sufficiente» a innescare l’incendio che ha distrutto l’accampamento tirato su in uno dei quadranti sulla mappa definiti sicuri dall’esercito. Le fiamme devastanti — continua Hagari — potrebbero essere state causate «da un contenitore di carburante o da un deposito di armi» di Hamas colpiti dalle schegge delle bombe. Nega che sia stato condotto un altro raid ieri, fonti a Gaza raccontano di 20 morti ad Al Mawasi, il rettangolo sulla costa che fa da zona umanitaria. I palestinesi uccisi a Gaza in 235 giorni di guerra hanno superato i 36 mila, secondo le stime del ministero della Sanità nella Striscia che non distingue tra civili e combattenti.
Almeno un milione di persone è scappato da Rafah dove si erano rifugiate dopo aver lasciato le case in macerie nel nord. La crisi nei 363 chilometri quadrati rischia di diventare ancora più disastrosa, le Nazioni Unite avvertono che la popolazione è sull’orlo della carestia. Gli americani hanno annunciato di aver interrotto le operazioni cominciate una settimana fa per lo sbarco di aiuti sul pontile galleggiante che avevano costruito al largo e attraccato alla costa di Gaza. Il mare in tempesta ha staccato alcuni elementi e danneggiato la struttura, quattro navi impegnate nelle operazioni sono finite spiaggiate. Il porto provvisorio era la soluzione offerta da Biden per cercare di alleviare la fame della popolazione, la maggior parte delle organizzazioni di soccorso era contraria perché sosteneva che era poco gestibile. Com’è successo per colpa delle onde.
A Ramallah e su altri edifici pubblici in Cisgiordania i palestinesi hanno deciso di sventolare le bandiere di Spagna, Norvegia e Irlanda che ieri hanno ufficialmente riconosciuto lo Stato. Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, ha detto di essere favorevole al riconoscimento ma che l’azione andrebbe «coordinata tra i Paesi» perché l’Unione guadagni maggior peso diplomatico. L’irlandese Micheál Martin ha detto che per la prima volta «si è parlato seriamente di sanzioni da imporre a Israele».
Il governo di Netanyahu ribadisce che la mossa delle tre nazioni è «un premio ai terroristi di Hamas per i massacri del 7 ottobre»: «È come abbandonare gli ostaggi». A Gaza sono tenuti ancora 121 israeliani, tra loro 37 sono considerati morti in cattività. I consiglieri di Bibi, com’è soprannominato, hanno consegnato ai negoziatori americani, egiziani e del Qatar la proposta israeliana per rilanciare le trattative che portino al rilascio dei rapiti in cambio di una lunga pausa nei combattimenti e della scarcerazione di detenuti palestinesi. Il primo ministro — rivela la rivista digitale Axios — sarebbe disponibile ad accettare che nella prima fase, sei settimane, vengano restituiti anche cadaveri dei sequestrati e a discutere di una «calma sostenibile» sul lungo periodo. I capi di Hamas insistono nel chiedere la fine della guerra.
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