Perché le manifestazioni pro-Hamas sono diverse e più pericolose
Commento di Ben Cohen
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/why-the-pro-hamas-demonstrations-are-different-and-more-dangerous/
Negli ultimi otto mesi, le comunità ebraiche di tutto il mondo sono rimaste intimidite e disgustate dall’ondata di manifestazioni pro-Hamas. Tutti abbiamo visto gli avvertimenti e sentito gli slogan che in vario modo ci impongono di “tornare” in Polonia, che il sionismo è la radice di tutto il male e della crudeltà nel mondo, che Israele non ha il diritto di esistere, che gli ebrei gridano “all’antisemitismo” per distogliere l'attenzione pubblica dalle sofferenze dei palestinesi e dai presunti crimini di Israele. Siamo piuttosto abituati al fatto che le nostre scuole, sinagoghe, ristoranti e centri comunitari siano presi di mira dai manifestanti, a vedere adesivi e manifesti che condannano il cosiddetto “genocidio” di Israele mentre camminiamo verso la metropolitana o al supermercato, a sentire l’infinito martellamento di esperti dei media che criticano lo Stato ebraico e i suoi leader. Alziamo le mani con rassegnazione davanti all'indifferenza di questi manifestanti verso i veri genocidi che stanno avendo luogo proprio adesso in Ucraina, in Congo, in Sudan, in Birmania/Myanmar, nella provincia cinese dello Xinjiang e in così tanti altri Paesi. In breve, abbiamo la sensazione di avere tutto il mondo contro di noi. Ma, per quanto possa sembrare così, non siamo soli. Gli apologeti dello stupro e dell’omicidio che intasano le strade delle nostre città ogni fine settimana o che vandalizzano i nostri campus universitari con accampamenti pro-Hamas (e si noti, tra l’altro, come la difficile situazione dei palestinesi a Gaza sia stata completamente oscurata dall’insistenza di questa folla nel farsi passare come vittima della brutalità della polizia e dell’influenza “sionista”! ) sono riusciti a rendere ostili e ad irritare ampie fasce del pubblico in generale. Immaginate di pagare una somma a sei cifre per far studiare i vostri figli all’università, solo per vedere quella preziosa cerimonia di laurea distrutta dal rozzo canto di “Palestina libera”, “Dal fiume al mare” e da tutti gli altri canti antiebraici che i manifestanti riciclano all'infinito. Nelle ultime settimane, troppi genitori americani hanno avuto questa esperienza.
Dopo le atrocità di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, ogni giorno è stato simile a un incontro di wrestling con il principio della libertà di parola attribuito (erroneamente, tra l’altro) al filosofo illuminista francese Voltaire: “Io non sono d’accordo con quello che tu dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo.” Libertà di parola significa essenzialmente dare un lasciapassare alle cattive parole in base alla coscienza individuale. Questo non è un principio su cui qualsiasi democrazia può scendere a compromessi perché così facendo ci metterebbe sulla strada per diventare Russia, Cina, Iran o qualsiasi altro Stato autoritario in cui le parole sono regolamentate e limitate. Eppure la sfida con le proteste pro-Hamas è che queste non possono essere ridotte alla sola libertà di parola o a manifestazioni pacifiche. La violenza che è al centro del programma di Hamas è stata replicata dai suoi seguaci in Occidente. E questo dovrebbe preoccuparci, anche perché esiste un precedente storico. Sulla scia delle rivolte studentesche globali del maggio 1968 e del loro conseguente fallimento, molti attivisti dell’estrema sinistra si rivolsero alla violenza politica come risposta. Probabilmente, l’esempio più noto si manifestò in Germania, dove la Frazione dell’Armata Rossa (RAF), più comunemente nota come “Gruppo Baader Meinhof” dal nome dei suoi fondatori, Andreas Baader e Ulrike Meinhof, si era schierata dalla parte dei gruppi radicali palestinesi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Gli aspiranti guerriglieri urbani della RAF si sono recati in Libano, dove vennero addestrati dai palestinesi all'uso delle armi, nonché alla pianificazione ed esecuzione di operazioni terroristiche. Nel 1976, un'operazione congiunta RAF-PFLP portò al dirottamento di un volo dell'Air France partito da Tel Aviv, che fu dirottato all'aeroporto di Entebbe in Uganda, dove gli ostaggi godevano dell’ambigua protezione dell'allora dittatore di quel Paese, l'assassino di massa Idi Amin. Durante quel dramma, i terroristi, da buoni nazisti, separarono i passeggeri ebrei da quelli non ebrei. Ancora una volta si dovette ascoltare l’ordine “Ebrei a sinistra!”, a solo tre decenni dalla liberazione dei campi di concentramento nazisti tedeschi. Come è noto, i passeggeri furono salvati nel corso di un'audace operazione organizzata dalle Forze di Difesa Israeliane; altrimenti, probabilmente ci sarebbe stato un massacro che sarebbe stato descritto, proprio come quello del 7 ottobre, come il peggior atto di violenza contro gli ebrei dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Esiste il giustificato timore che tale violenza, che si concentri su ebrei indifesi, possa ancora una volta rialzare la testa.
La settimana scorsa, il consigliere del governo britannico sull’estremismo politico, John Woodcock Lord Walney, ha pubblicato un rapporto che esaminava le possibilità che la retorica aggressiva riscontrata negli angoli più remoti dei movimenti di estrema sinistra e di estrema destra si trasformi in vera e propria violenza. Il rapporto osserva che “l’attivismo attorno al conflitto israelo-palestinese si distingue per essere al centro di comportamenti di incitamento e intimidazione, nonché dell’uso della violazione della legge da parte di alcuni attivisti. C’è una distinzione qui tra gli attivisti tradizionali che si concentrano principalmente sulla promozione della causa palestinese attraverso mezzi legali e quelli che concentrano il loro attivismo sull’ostilità verso Israele.” Quest’ultimo raggruppamento è pieno di antisemitismo, che viene “spesso presentato in connessione con le teorie anticapitaliste del complotto, come il cliché antisemita dei banchieri ebrei che controllano il mondo” “È questo movimento”, continua il rapporto, “che si è dimostrato più disposto a ricorrere alla violazione della legge, all’intimidazione e, a volte, alla violenza”. Gran parte dell'analisi di Woodcock si è concentrata sulle attività di un gruppo chiamato Palestine Action, un collettivo di anticapitalisti e anarchici che si sono impegnati in "azioni dirette" contro le aziende israeliane con interessi nel Regno Unito. Come ha osservato Woodcock, Palestine Action ha dedicato i suoi sforzi a Elbit Systems UK, una filiale della società israeliana di tecnologia di difesa Elbit Systems, vandalizzando i suoi uffici, intimidendo i suoi dipendenti e impedendo a Elbit di adempiere i suoi contratti con il Ministero della Difesa del Regno Unito. L’attacco specifico all’Elbit si è ora evoluto in un attacco più generale agli interessi israeliani e alla comunità ebraica britannica. "Piccoli gruppi di attivisti estremisti che sabotano le imprese con le quali non sono d'accordo non solo creano un clima di intimidazione per le aziende private e il loro personale, ma hanno anche un effetto dannoso sulle economie locali e sulle opportunità di lavoro", aggiunge il rapporto di Woodcock. In tali circostanze, la messa al bando di tali gruppi – non a causa delle loro parole ma a causa delle loro azioni – è del tutto giustificata. Il movimento pro-Hamas, come sostiene Woodcock, ha adottato la violenza come tattica, ma poi cerca di nascondere il suo uso della violenza dietro la copertura della libertà di parola. Questo è un approccio, come indica la beffarda risposta dei social media al rapporto di Woodcock, che gode di grande popolarità tra i progressisti. Ma che si tratti dell’Europa o degli Stati Uniti, la violenza e la difesa della violenza sono del tutto disgiunte dalla libertà di parola. Mentre i vari gruppi pro-Hamas, come Within Our Lifetime in America, si avviano verso un risultato simile a quello di Baader Meinhof, le nostre leggi devono essere un passo avanti. E tutto inizia con il riconoscimento di una verità fondamentale: questi non sono manifestanti pacifici e non si tratta di libertà di parola.
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate