Riprendiamo da LIBERO di oggi 22/05/2024, a pag. 24, con il titolo "Nel manifesto di Ventotene c'è un'Europa che non fa per noi", il commento di Daniele Capezzone al libro di Corrado Ocone, di cui viene pubblicato un estratto.
Daniele Capezzone
Introduzione di Daniele Capezzone al libro di Corrado Ocone
Prima delle elezioni europee, concedetevi un piccolo grande regalo: procuratevi (è in uscita per le edizioni Historica-Giubilei Regnani) il pamphlet di Corrado Ocone Radici e libertà-Una filosofia per l’Europa.
La firma del professor Ocone non ha certo bisogno di presentazioni per i lettori di Libero. Ma questo agile e denso saggio ha un valore speciale, perché colloca la crisi dell’Unione Europea,la sua deriva illiberale e burocratica,la follia del green deal, dentro una più generale débacle delle classi dirigenti tecno-progressiste, irrimediabilmente sconnesse dal popolo, prigioniere di un costruttivismo presuntuoso, disancorate da quel pragmatismo liberale che potrebbe salvare il salvabile del progetto europeo, evitando eccessi e fughe in avanti, tenendosi allalarga da derive ultra-ideologiche, riconoscendo le diversità nazionali, ein ultima analisi facendo prevalere la ragionevolezza sull’infatuazione eurolirica. Ocone spazia dalle scelte economiche e a quelle geopolitiche, e dedica una parte decisiva del suo saggio allo sradicamento perseguito in questi anni da Bruxelles: se scegli di non avere un’”anima”, è fatale che venga fuori un progetto fragile, inadeguato, non destinato né alla solidità né al successo. Tra i numerosi capitoli del libro, vi proponiamo qui una scelta molto coraggiosa dell’autore, che - letteralmente - viola un santuario e abbatte un totem, spiegando a tutti perché il “Manifesto di Ventotene” non è e non può essere un modello o un riferimento. Con il doveroso rispetto che Spinelli, Rossi e Colorni (i tre autori) certamente meritano, quel documento è stato nei decenni più citato che letto. Se fosse stato esaminato con attenzione e autentico spirito liberale, sarebbero emerse ingenuità e derive assai pericolose, che Ocone non ha remore nel mettere in luce. Buona lettura.
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Estratto del libro di Corrado Ocone
Al contrario dei Padri fondatori citati, a cui si tributa di solito solo un omaggioformale, negli ultimi tempi è cresciuta la mitologia intorno agli estensori del cosiddetto Manifesto di Ventotene. Il “mito” e la retorica, pur non essendo elementi razionali, o forse proprio per questo, hanno in politica un ruolo importante: aggregano attorno a certe idee, suscitanoenergie, generano passioni. Lungi da me, pertanto, criticarne l’uso. Ciò non esime però dal chiederci, di volta in volta, se determinati miti aggreghino attorno a idee condivisibili o meno, siano cioè una buona o meno buona base per l’azione. Perché,anche quando concernono fatti o personaggi del passato, essi rispondono sempre ad un’esigenza del presente e hanno gli occhi rivolti al futuro. Per farla breve, il fiume di retorica che sgorga in modo spesso irriflesso quando si parla del Manifesto di Ventotene, è ben riposto o no? Il Manifesto è davvero un testo in sé solido, e per di più originale, o la sua fortuna è dovuta soprattutto a cause esterne e al contesto in cuimaturò ed ebbe poi diffusione? E, soprattutto, le sue idee, ovviamente riviste e “attualizzate”, possono ancora essere le nostre? È sulle sue basi che si può costruire la politica del futuro, o anche l’auspicabile rinascita di un sentimento europeista? Ora, basta leggere lo smilzo testo scritto nel 1942 da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi per renderci conto, da una parte, della approssimativa “filosofia della storia” che lo sorregge, dall’altra, del metodo e dei contenuti non proprio liberali da esso proposti all’Europa unita di cui auspica la nascita.
LA VISIONE
Dal primo punto di vista, il trambusto che viveva allora l’Europa, e che aveva portato a due guerre mondiali, viene messo sul conto degli Stati nazionali, di cui si auspica il superamento: garanti ultimi in un primo momento delle libertà civili e politiche dei cittadini di un determinato territorio, essi avrebbero poi mostrato la loro più vera natura di entità politiche “imperialistiche” volte al predominio e alla sopraffazione degli altri. L’ideologia nazionalista è stato perciò il grimaldello culturale a cui essi sono appoggiati. Questa deriva è, per gli estensori del Manifesto, consustanziale ad ogni Stato nazionale. Ed è proprio per batterla in breccia che essi propongono gli Stati Uniti di Europa. È una visione tutta politica della “crisi europea” che non tiene in debito conto i fattori culturali e ideologici che ne sono stati alla base e che spesso si sono serviti degli Stati, non viceversa. Nei confronti dello Stato, in verità, Spinelli e Rossi hanno un atteggiamento ambiguo: lo giudicano un ferro vecchio del passato, ma non esitano poi a proporre ricette fortemente “stataliste” per la nuova Europa post-statale che vogliono costruire. Non si rendono conto che lo Stato mostra il suo volto “cattivo” proprio quando si riempie di valori contenutistici, ovvero quando non li fa emergere dal libero gioco politico di cui dovrebbe essere semplicementeil garante. Il Manifesto si spinge in tal senso a dire che l’Europa «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita». Di qui un elenco di politiche che dovranno essere seguite per darle il profilo che dovrà necessariamente avere, indipendentemente dai rapporti di forza fra i partiti politici e dal consenso dell’opinione pubblica: «Nazionalizzazioni su vasta scala, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti»; controllo e forte limitazione, secondo dosi e tempi da stabilire pragmaticamente, del diritto di proprietà, soprattutto di quella individuale (nei limitati settori non statizzati si dovranno infatti favorire la gestione cooperativa e l’azionariato popolare); interventi attivi sui giovani per equiparare le loro condizioni di partenza e equiparazione successiva dei salari e degli stipendi medi, attraverso il controllo statale del meccanismo della domanda e offerta; reddito minimo garantito dallo Stato da sostituire alle «avvilenti» attività caritatevoli individuali (cioè combattere, o illudersi di combattere, la povertà ex ante e non ex post); sindacati rinnovati e non succubi delle logiche del «grande capitale»; una laicità attiva dello Stato, che dovrà non solo neutralizzare le pretese pubbliche delle religioni, ma che dovrà anche «riprenderela sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico» (quindi uno Stato pedagogo) e «fissare in modo inequivocabile la sua supremazia sulla vita civile»; soppressione delle corporazioni dello Stato fascista il cui scopo era soprattutto quello di effettuare «un controllo poliziesco sui lavoratori ri» (e su questo punto unicamente anche un liberale può essere d’accordo). Ora, è evidente che se queste debbano essere le caratteristiche imprescindibili della nuova Europa, in quanto in sé «giuste» e «buone», a prescindere, bisogna che, a guerra finita (cioè quando a causa del fallimento degli Stati nazionali se ne creerà l’occasione), venga messa in opera una rivoluzione che, per il bene di tutti, determini nel più breve tempo possibile un siffatto stato di cose (ed è questo il senso politico del Manifesto, lo scopo per il quale fu scritto: richiamare all’azione le forze rivoluzionarie e non farle trovare impreparate rispetto a un futuro imminente).
RIVOLUZIONE
Una rivoluzione nel senso preciso del termine, per Rossi e Spinelli: un processo cioè che, in vista dell’obiettivo, sospenda l’ordine democratico, non rifiuti l’uso della violenza, sia guidato da un’élite di rivoluzionari molto determinati e con gli occhi fissi verso l’obiettivo dell’Europa socialista. È il tratto “giacobino-leninista” del Manifesto, che lo stesso Spinelli avrebbe ammesso molti anni dopo. «La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria». Ora, sia ben chiaro, la politica viene fatta attraverso l’azione di élite, sempre, anche in democrazia. In un regime liberale, tuttavia, è necessario che tutti possano aspirare a farne parte e che esse sorgano dal basso, siano diverse e in aspra competizionefra diloro, siano alternativamente al potere secondo la volontà dei cittadini. Nessuno può proclamarsi a priori di farne parte in nome di un’idea ritenuta superiore, arrivando a sospendere il gioco democratico o a non tenere conto degli umori e delle convinzioni dei cittadini-elettori. Nessuno può ritenersi portatore di idee buone e indiscutibili, di agire paternalisticamente per il bene degli altri anche se gli altri non vogliono. Che è quanto, in sostanza, fanno Rossi e Spinelli. I quali hanno dietro le spalle la più fallace delle ideologie e teologie politiche, quella del Progresso. Per loro la storia si muove inesorabilmente nella direzione del bene. E il bene, astrattamente definito, non è una opzione concreta delle nostre azioni, il possibile e precario risultato dell’azione di un essere in séfallibile. Il bene è già iscritto nella storia. Ciò che a noi è possibile è solo accelerare il processo, «forzare la mano alla storia», realizzare una «rivoluzione dall’alto». «La via da percorrere non è facile e sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà».
TOTALITARISMO
Siamo, in altre parole, pienamente all’interno del dispositivo logico che era stato proprio dei totalitarismi, in primaistanza di quello sovietico, verso il quale il Manifesto ha come un occhio di riguardo non considerandolo probabilmente affetto dalla patologia del nazionalismo a cui vengono ricondotti in modo esclusivo i Mali dell’umanità (l’URSS viene però giustamente criticata perla sua deriva burocratica, senza però che gli autori si rendano conto che anche la iperregolamentazione a cui loro tendono non può non avere che questo esito).
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