Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 17/05/2024, a pag.15 con il titolo "Nel Nord di Israele ora c’è un deserto. 'Hezbollah spara qui non torniamo'". La cronaca di Francesca Caferri.
Francesca Caferri
Da ottobre, Tal Lavi Shimron vive a Beirut, non lontano dall’aeroporto internazionale Rafiq Hariri: e non lo sa. Il centro direzionale dello scalo è ciò che appare sul navigatore ogni volta che si avvicina alla sua casa nel kibbutz Adamit, a 500 metri dalla frontiera libanese, e in tutta l’area circostante. È così per lei e per le decine di migliaia di persone che vivono nella zona settentrionale della Galilea, a poca distanza (nove chilometri, dal punto dove ci troviamo) dalla Linea Blu che segna il confine con il Libano, e dai villaggi di Ayat el Cheb e Ramyeh , dall’altra parte della frontiera, che nelle giornate di buona visibilità sembrano vicinissimi. La falsa posizione che danno i GPS è il più elementare dei provvedimenti che l’esercito israeliano (Idf) ha preso per tentare di limitare gli attacchi di Hezbollah in questa zona.
Il punto che Lavi Shimron ci tiene a sottolineare è che il problema non è questo. Dall’8 di ottobre, il giorno successivo all’attacco di Hamas sul Sud del Paese, qui corre il fronte dimenticato di Israele. Con gli occhi di tutti fissi su Gaza, gli scambi di artiglieria ai due lati del confine, gli attacchi israeliani – una dozzina, solo ieri – sul territorio libanese e quelli del gruppo sciita su obiettivi militari e civili da questa parte della Linea Blu, finiscono in fondo alle notizie che arrivano da questa parte del mondo. Non per la nostra interlocutrice e per gli altri 60 mila israeliani che da ottobre, su ordine dell’esercito, hanno dovuto evacuare 43 tra città e villaggi che sitrovano entro cinque chilometri dal Libano, e che da allora vivono in alberghi, case affittate o ospiti di parenti. Dall’altra parte del confine, la stessa sorte è toccata a 90 mila persone.
«Sono andata via di corsa, lasciando la tazza con il caffè sul tavolo: quando mi autorizzano a tornare,sempre di corsa, per prendere qualcosa, la trovo ancora lì», ci dice la signora Lavi Shimron. Tre giorni fa un pallone spia israeliano è stato abbattuto sul cielo sopra la sua casa ed è atterrato intatto in Libano: una prima assoluta, che Hezbollah ha ampiamente celebrato sui suoi canali social e tv.
Sarit Zehavi, ex analista di intelligence, fondatrice e presidentessa dell’Alma research center, specializzato in analisi sul confine Nord, non sa (o non può) dire se contenesse informazioni rilevanti per il gruppo sciita. Ma è certa che nelle ultime 72 ore gli attacchi si sono intensificati: 60 missili ieri, 60 il giorno prima, compreso quello su una importante base militare vicino al lago di Tiberiade. «L’esercito dice che nel pallone non c’era nulla e ci credo: ma di certo abbiamo un occhio in meno dall’altra parte. Se a questo aggiungiamo le nuove armi che Hezbollah sta usando, eccoci all’escalation degli ultimi giorni», sostiene. Con i suoi analisti, Zehavi ha individuato tre tipi di missili che il gruppo sciita sta usando: i Kornet, con un raggio d’azione di dieci chilometri, gli Almas, che colpiscono obiettivi fra i 4 e i 16 chilometri, e Tharallah, una versione modificata e più letale del Kornet che solo da pochi giorni ha fatto la sua apparizione in questo teatro di guerra.
La signora Lavi Shimron si occupa di turismo e non si intende di armi. Neanche le importa molto: quello che le interessa è tenere insieme i pezzi della sua vita. I due figli grandi che non vivono più con lei, perché le scuole dell’area sono chiuse e per studiare devono andare lontano. L’appartamento in affitto dove stringersi. Un lavoro andato a rotoli. Il mutuo che resta lì, nonostante sia stato congelato per qualche mese. A far indignare lei e altre decine di migliaia di persone è il fatto che il governo abbia rifiutato di garantire che potranno tornare a casa per il primo settembre, il giorno in cui in Israele riaprono le scuole. In occasione della festa dell’Indipendenza, martedì scorso, alcune delle comunità evacuate hanno inscenato una secessione simbolica dallo Stato di Israele nelle strade del Nord: un modo per dare sfogo alla rabbia.
Né Lavi Shimron né Zehavi, che pure vive in questa zona, hanno partecipato, ma ne condividono lo spirito. «Così non può proseguire, serve un cambio di passo – spiega l’analista –. Il mio incubo peggiore è che la guerra a Gaza finisca e il mondo si dimentichi di noi. Quello che chiediamo è alla comunità internazionale di mettere da parte la risoluzione Onu 1701 (quella che nel 2006 ha messo fine all’ultimo conflitto fra Israele e il Libano, ndr )e pensare a una soluzione definitiva per fermare l’arrivo di armi a Hezbollah. E al nostro esercito una migliore strategia: non chiedo una guerra aperta, ma dobbiamo agire. All’inizio è stata data priorità al Sud, ora è tempo di un cambio di passo. Se non ci sarà, moltissime persone non torneranno: sarebbe come chiedergli di aspettare il prossimo 7 ottobre nelle loro case».
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