Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - l'articolo di David Horovitz, dal titolo "L’irricevibile 'accordo' di Hamas che le permetterebbe di tenere la maggior parte degli ostaggi, vincere la guerra e incendiare la Cisgiordania" tradotto dal Times of Israel.
C’è voluto più di un giorno, dopo che Hamas aveva proclamato d’aver accettato quella che a suo dire era la proposta dei mediatori egiziani e del Qatar “su un accordo di cessate il fuoco”, perché finalmente il portavoce del Dipartimento di stato americano Matthew Miller dichiarasse pubblicamente, martedì sera, che non era vero: “Non è quello che hanno fatto”. In realtà, quello che ha fatto Hamas, ha spiegato Miller, è stato “rispondere con emendamenti o con una controproposta”. E adesso gli Stati Uniti, ha aggiunto, stanno “lavorando sui dettagli”.
In effetti, un attento esame del documento di Hamas così come diffuso (in arabo) dalla stessa Hamas, mostra che, lungi dal contenere “emendamenti” o una controproposta anche lontanamente praticabile, in effetti è costruito con micidiale raffinatezza allo scopo di garantire che Hamas sopravviva alla guerra e riconquisti la propria posizione di controllo su tutta la striscia di Gaza.
E non è tutto. Il testo è anche studiato in modo da garantire che Hamas consegua ulteriori obiettivi cruciali di enorme portata, senza dover soddisfare la richiesta principale di Israele: il rilascio di tutti gli ostaggi. Di fatto, Hamas può annullare l’accordo, una volta raggiunti tutti i suoi obiettivi chiave e anche di più, continuando a tenere quasi tutti gli ostaggi.
Tra questi obiettivi c’è uno degli obiettivi più importanti di Hamas da quando ha invaso Israele il 7 ottobre: espandere in Cisgiordania la sua proclamata guerra di distruzione contro lo stato ebraico. Per estensione, i termini del documento sono anche pensati per demolire la grande visione del presidente americano Joe Biden che prevedrebbe la normalizzazione saudita e una più ampia coalizione mediorientale contro l’Iran.
Molta attenzione mediatica si è soffermata sul fatto che, mentre Israele ha sempre ripetuto che non intende porre fine alla guerra come condizione per il rilascio degli ostaggi, Hamas, nei paragrafi iniziali della sua infausta controproposta, specifica che uno degli “scopi” dell’accordo è “un ritorno a una calma sostenibile che porti a un cessate il fuoco permanente”. Sembra solo un cavillo, visto che la proposta israeliana trasmessa dai mediatori a Hamas alla fine del mese scorso, e definita dal segretario di stato americano Antony Blinken un’offerta “straordinariamente generosa”, prevedeva, stando a quanto riferito, un “accordo per ripristinare una calma sostenibile”, il che suona quasi come un eufemismo per un cessate il fuoco permanente.
Ma giustamente è stato sottolineato che, secondo il documento di Hamas, Israele dovrebbe cessare le operazioni militari nella prima fase di sei settimane durante la quale verrebbero liberati 33 ostaggi, e che le Forze di Difesa israeliane dovrebbero “ritirarsi completamente” da Gaza con una “cessazione permanente delle operazioni militari” prima che altri ostaggi vengano liberati nella seconda fase.
Intanto si è fatto meno caso al fatto che, secondo la proposta di Hamas, nella prima fase “gli sfollati interni a Gaza torneranno nelle loro aree di residenza” e “a tutti i residenti di Gaza sarà concessa libertà di movimento in tutte le parti della striscia” mentre tutta l’attività su Gaza dell’aviazione israeliana (sia militare che di ricognizione”) cesserà per gran parte della giornata.
L’effetto di queste clausole, combinate con un drastico ritiro delle truppe israeliane come ulteriormente specificato per la prima fase, sarebbe quello di consentire agli uomini armati e ai comandanti di Hamas di riprendere il controllo dell’intera striscia di Gaza. E’ vero che il testo di Hamas parla di persone “disarmate” per descrivere gli sfollati a cui sarebbe permesso tornare alle loro aree di residenza. Ma le clausole e disposizioni che accompagnano questo concetto significano che Israele non avrebbe né il diritto né gli strumenti per far rispettare il vincolo dei “disarmati”.
Ancora più significativa, e anche questa poco considerata, è la radicale riconfigurazione nel documento di Hamas dei termini e del processo per il rilascio degli ostaggi israeliani.
Molti dei parenti dei 128 israeliani ancora detenuti a Gaza dal 7 ottobre, vivi e morti, invocano disperatamente, e del tutto comprensibilmente, un accordo a qualsiasi o quasi qualsiasi prezzo, compresa la fine della guerra, in cambio del rilascio di tutti, o la maggior parte, o perlomeno un buon numero di ostaggi.
Ma la proposta di Hamas è strutturata in modo da consentirle di rilasciare pochissimi ostaggi (e non tutti in vita) in cambio non solo della fine della campagna militare israeliana a Gaza e quindi in cambio della sopravvivenza di Hamas e di un suo pieno ritorno al potere, ma anche di un aumento pianificato del sostegno a Hamas in Cisgiordania, di un’ulteriore castrazione dell’Autorità Palestinese e di una potenziale grande escalation di violenza contro Israele nella e dalla Cisgiordania.
Vediamo perché. Il documento originale prevedeva che Hamas rilasciasse almeno 33 ostaggi vivi nella prima fase dell’accordo, al ritmo di tre ostaggi ogni tre giorni a partire dal primo giorno in cui l’accordo entrerà in vigore.
Nel testo riformulato da Hamas, il gruppo terrorista non si impegna più a liberare 33 ostaggi vivi nella prima fase (e già questa era una concessione da parte di Israele, che inizialmente aveva cercato di ottenere 40 ostaggi vivi nella prima fase). Ora Hamas afferma che i 33 ostaggi della prima fase potrebbero essere “vivi o morti”.
Di più. Hamas rilascerebbe i primi tre ostaggi solo nel terzo giorno dall’entrata in vigore dell’accordo, e poi “altri tre detenuti ogni sette giorni”. Ciò significa che, mentre nella proposta sostenuta da Israele tutti i 33 ostaggi sarebbero stati liberati nel corso del primo mese dell’accordo, la tabella di marcia di Hamas prevede che meno della metà dei 33 verrebbero rilasciati nel primo mese.
Non basta. Hamas specifica che i primi ostaggi a essere liberati saranno “per quanto possibile donne (civili e soldatesse)” e aumenta da 40 a 50 il numero dei detenuti di sicurezza palestinesi che Israele deve scarcerare in cambio di ciascuna delle (si ritiene cinque) soldatesse israeliane vive tenute in ostaggio. E tra gli scarcerati dovranno essercene 30 condannati all’ergastolo, laddove l’offerta israeliana indicava 20 condannati all’ergastolo. Soprattutto, Hamas rimuove una clausola chiave della proposta sostenuta da Israele: quella per cui Hamas aveva il diritto di scegliere i nomi solo di 20 detenuti di sicurezza da scarcerare nella prima fase, e Israele avrebbe mantenuto il diritto di porre il veto su tali nomi. Nel testo modificato si afferma invece che i terroristi detenuti saranno scarcerati “sulla base di elenchi forniti da Hamas”, senza che Israele possa obiettare.
La conseguenza della somma di tutti questi cambiamenti è che, nei primissimi giorni dell’accordo, Hamas otterrebbe la scarcerazione di centinaia tra i più pericolosi e venerati capi terroristi e assassini, tra cui almeno 150 condannati all’ergastolo, in cambio del rilascio di pochissimi ostaggi.
La proposta di Hamas contiene inoltre una clausola che prevede la scarcerazione, nel 22esimo giorno dell’accordo, di “tutti i prigionieri dell’accordo Shalit che sono stati nuovamente arrestati”. Per Yahya Sinwar, il capo di Hamas lui stesso scarcerato con i 1.027 terroristi palestinesi rimessi in libertà da Israele nel 2011 per ottenere il rilascio del soldato ostaggio Gilad Shalit, ciò costituirebbe uno strepitoso successo: la scarcerazione dei tanti suoi compari che, come lui, sono tornati a praticare il terrorismo dopo essere stati rilasciati nel contestatissimo scambio di 13 anni fa ma che, a differenza di lui, sono stati ricatturati.
Infine, a questo riguardo, manca nel testo di Hamas una precisa richiesta che c’era nella proposta israeliana, in base alla quale Israele avrebbe potuto vietare l’ingresso in Cisgiordania di certi detenuti scarcerati originari della Cisgiordania, rilasciandoli invece nella striscia di Gaza o in altri paesi.
Perché tutto questo è importante?
A fine novembre il rilascio di decine di detenuti di sicurezza palestinesi durante la settimana di tregua scatenò enormi scene di giubilo in Cisgiordania. Sera dopo sera, comparvero decine di bandiere e striscioni verdi di Hamas sventolati davanti alle telecamere, e i detenuti scarcerati sfilarono indossavano bandane verdi di Hamas anche nelle strade di Ramallah, il bastione dell’Autorità Palestinese controllata dal movimento Fatah. E quei detenuti scarcerati erano donne e minorenni.
Stando alle condizioni che pone Hamas, decine e decine di terroristi condannati a ergastoli o lunghe pene detentive, dunque assassini, stragisti e capi terroristi, uscirebbero di prigione e andrebbero a stabilirsi in Cisgiordania, celebrati come eroi.
Il calcolo di Sinwar è chiaro: il loro rilascio verrebbe percepito dai palestinesi di Cisgiordania come una straordinaria umiliazione di Israele, un atto d’accusa senza appello contro l’Autorità Palestinese che non era riuscita a liberarli, e una straordinaria vittoria per Hamas.
Sinwar si aspetta sicuramente che l’euforia che accompagnerebbe il ritorno dei “prigionieri” consolidi Hamas come il campione indiscusso della causa palestinese, con il suo obiettivo dichiarato di distruggere lo stato ebraico e una dimostrazione del successo delle sue tattiche terroristiche, alimentando un trascinante sostegno per Hamas in Cisgiordania, un’ulteriore emarginazione della già fallimentare Autorità Palestinese e l’alba di una nuova era di crescenti violenze e terrorismo contro Israele.
Dopo questa fase iniziale del presunto accordo in tre fasi della durata di 18 settimane, Hamas avrebbe pochissimi incentivi a procedere con il processo. Avrebbe ben poco altro da strappare a Israele. Mentre Israele, cosa cruciale, avrebbe ben poche, se non nessuna residua leva per far pressione su Hamas.
A Hamas non resterebbe altro che calcolare serenamente fino a che punto procedere con l’applicazione dell’accordo prima di abrogarlo – approfittando delle varie interconnessioni previste fra le varie fasi – o semplicemente violarlo (come ha sempre fatto in precedenza).
Hamas potrebbe calcolare il momento giusto in cui bloccare il rilascio di ostaggi, e farlo in un modo ben architettato così da fare credere a quante più persone possibile che l’impasse sia colpa di Israele, come ha fatto con pieno successo lunedì sera quando ha falsamente sostenuto che aveva “accettato” un accordo per la tregua e il rilascio degli ostaggi (che in realtà aveva profondamente alterato).
E Hamas lo farebbe ben sapendo che gli Stati Uniti vogliono a tutti i costi che la guerra finisca e non riprenda.
In sintesi, grazie alle condizioni che lei stessa ha posto, Hamas prevede di sopravvivere, riarmarsi, riaffermare il suo pieno controllo su Gaza e stabilire la propria supremazia in Cisgiordania. Israele resterebbe sotto attacco su più fronti. L’ambiziosa, improbabile visione americana di un Israele integrato nella regione, in pace con l’Arabia Saudita e con un riformato governo dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Gaza, andrebbe in frantumi. La maggior parte degli ostaggi resterebbero nelle mani di Hamas a Gaza, senza alcuna vera prospettiva di liberazione. E Israele sarebbe più lacerato e vulnerabile che mai.
Lunedì sera, subito dopo che il gran capo di Hamas Ismail Haniyeh aveva diramato il suo presunto sì al cessate il fuoco, il ministro degli esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha detto d’aver parlato con Haniyeh il quale gli ha detto: “La palla è nell’altro campo. Noi siamo onesti circa le nostre intenzioni”.
Ha regione: il documento non lascia dubbi sulle intenzioni di Hamas. Basta leggerlo.
(Da: Times of Israel, 8.5.24)
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