Riprendiamo da LIBERO di oggi 07/05/2024, a pag. 1/10, con il titolo "Cinque ragioni per liberare l'ultima roccaforte di Hamas", il commento di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Nel tardo pomeriggio di ieri, è sembrato – per qualche decina di minuti – che, all’ultimo istante, Hamas fosse stata costretta dalla determinazione di Israele a piegarsi e a dire un genuino sì alla proposta di cessate il fuoco. Se così fosse stato, se ne sarebbe dovuta trarre una conseguenza logica: dare ragione a Bibi Netanyahu e torto a tutti gli altri (Onu, Ue, Casa Bianca bideniana). Avrebbe cioè avuto ragione chi, a Gerusalemme, riteneva e ritiene che con i terroristi si debba usare solo il linguaggio della forza, e soprattutto che si debba operare per vincere. E vincere vuol dire appunto questo: prevalere nettamente sul campo, sottrarre al terrore le sue basi operative, se possibile eliminare i capi dei nemici, o almeno metterli in condizione di non nuocere oltre. Solo dinanzi a una pressione del genere, a una deterrenza fortissima, a una minaccia schiacciante, si può ragionevolmente sperare in un cedimento delle belve sanguinarie. Anche perché molto induce a pensare che proprio la presenza fisica di alcuni leader di Hamas a Rafah possa indurre il gruppo terroristico a tentare di guadagnare tempo e salvare il salvabile (oltre che la pelle).
Sta di fatto che, dopo una mezz’ora, Israele ha sollevato pesanti dubbi su un ennesimo possibile bluff di Hamas. In un opaco gioco di sponda con i negoziatori egiziani, i terroristi avrebbero infatti provato ad aggiustarsi da soli i termini dell’intesa. Obiettivo? O ingannare platealmente Gerusalemme, oppure – come Hamas ha poi esplicitamente detto – buttare la palla nel campo di Israele, addossando allo stato ebraico la responsabilità del mancato accordo. E allora che conseguenza dobbiamo trarne? La stessa di prima: ha di nuovo ragione Netanyahu e hanno ancora più torto i fautori dell’appeasement con i terroristi. Naturalmente la situazione resta aperta a diversi possibili esiti, e ieri sera Israele ha fatto sapere di stare esaminando il nuovo testo di Hamas. Vedremo.
Ciò detto, ho ben presente quanto sia popolare e di moda attestarsi su generiche quanto emozionati posizioni “per la pace in Medio Oriente”. Si scaldano i cuori e contemporaneamente si scaricano le coscienze. Figurarsi: chi mai può essere “per la guerra”? Non solo: abbiamo a che fare – comprensibilmente – con un’opinione pubblica angosciata dalla moltiplicazione degli scenari bellici (Ucraina, Gaza, Mar Rosso).
Ma, a maggior ragione in un quadro del genere, onestà intellettuale impone di non essere reticenti né omissivi, e di raccontare tutta intera una scomoda verità. Anche perché – la storia ce lo insegna – una serie di guerre non chiuse (o chiuse male) hanno prodotto una scia di successivi conflitti: quando una ferita resta aperta, può solo diventare purulenta, altro che guarigione. Dentro questa cornice va collocata l’ormai imminente offensiva israeliana a Rafah, che sarà impopolare quanto si vuole, ma, se avrà luogo, andrà difesa almeno per cinque ragioni.
Primo. I contrari usano l’argomento – forte e di grande impatto emotivo – della popolazione civile palestinese che verrebbe messa a rischio. Vero, anzi verissimo. Ma intanto va segnalata – come Israele fa sempre, diversamente dai suoi nemici – un’attività sistematica e capillare (radio, sms, volantini, appelli in arabo) da parte delle forze di Gerusalemme per informare la popolazione del territorio interessato su ciò che sta per accadere, con un pressante invito a spostarsi, fino all’ordine di evacuazione.
Semmai sarebbe stato necessario (e occorrerebbe tuttora) organizzare corridoi e vie di fuga per i civili, ipotesi caldeggiata in primo luogo da Israele.
Tra Rafah (profondo Sud della Striscia di Gaza) e Khan Younis c’è ad esempio una notevole quantità di spazio disponibile. Dunque, sarebbe stato e sarebbe compito delle Nazioni Unite e delle loro agenzie (in particolare, la famigerata agenzia per i rifugiati palestinesi) adoperarsi in tal senso: possono – anzi devono – farlo, garantendo il “come”, anziché limitarsi a dire no all’operazione dell’esercito israeliano.
Secondo. Liberare Rafah non è un capriccio di Netanyahu: stiamo parlando dell’ultima roccaforte controllata da Hamas. E sarebbe assolutamente insensato lasciare questo bastione nelle mani dei terroristi. Da lì ricomincerebbero appena possibile a colpire.
Da questo punto di vista, va ricordato che, dopo il 7 ottobre, tutti – da Washington a Bruxelles – si dicevano concordi sull’obiettivo di distruggere Hamas.
Oggi invece chi vuole fermare l’esercito di Gerusalemme sta oggettivamente offrendo un salvacondotto ai terroristi, peraltro adottando il loro stesso schema sia militare che narrativo, e cioè l’uso della popolazione civile palestinese come scudo umano.
Sta qui il paradosso nel paradosso: si aiuta Hamas e si finisce perfino per mutuarne il “racconto”.
Terzo. Si continua a ripetere che sarebbe “impossibile” eliminare Hamas. Ma questo non è vero: lo ha dimostrato il successo militare conseguito finora dagli israeliani a Gaza. Semmai, negli anni passati (si pensi alle timidezze che a lungo hanno frenato Barack Obama contro l’Isis) è proprio quel tipo di argomento che ha legato le mani all’Occidente. La storia ha invece dimostrato che dal 2016 in poi Isis è stata fatta fuori da Mosul e da Raqqa. Certo, se oggi invece figure di vertice del sistema Onu continuano a negare il carattere terroristico di Hamas, è evidente che qualcuno intenda salvare i vertici di quell’organizzazione, anziché contribuire alla loro eliminazione o cattura.
Quarto. Possibile che così tanti facciano finta di non capire che Hamas non è stata in grado di restituire nemmeno trenta ostaggi israeliani vivi tra tutti coloro che furono rapiti il 7 ottobre? Come mai questa macroscopica e centrale questione continua a essere trattata come un “dettaglio”?
Quinto. Con tassi maggiori o minori di buona fede, si continua a ripetere da più parti la soluzione dei “due stati”. A parole, un’ottima prospettiva.
Ma se uno dei due stati dovesse continuare a essere controllato da un gruppo terroristico come Hamas, quale sarebbe la percorribilità dell’ipotesi e la possibilità di convivenza fianco a fianco delle due entità statuali? Nessuna, di tutta evidenza. Ecco perché sradicare Hamas è la precondizione per rendere possibili i due stati. Chi non lo comprende o è molto ingenuo o è molto complice.
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