Quei ricordi del 7 ottobre nella giornata della Shoah. Ora «mai più»
Commento di Fiamma Nirenstein
Testata: Il Giornale
Data: 06/05/2024
Pagina: 12
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Quei ricordi del 7 ottobre nella giornata della Shoah. Ora «mai più»

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 06/05/2024 a pag. 12 il commento di Fiamma Nirenstein con il titolo: "Quei ricordi del 7 ottobre nella giornata della Shoah. Ora «mai più»".


Fiamma Nirenstein

Yom HaShoah dopo il 7 ottobre acquisce un altro significato. Quale Shoah? Quella conclusasi nel 1945, tre anni e mezzo di strage sistematica di ebrei, o quella del 7 di ottobre, una giornata di impensabili orrori? E’ una domanda dura, viva, sensata

Una fosca precognizione ha suggerito molto tempo fa, al Museo di Yad Va Shem, di intitolare questo Giorno della Memoria in Israele alle comunità scomparse. Ma il Paese, il mondo intero, possono chiedersi: quali comunità? Quali ebrei? Quelli di Baranov, il paese polacco di mio padre, dove tutti furono deportati in massa; o quelli di Be’eri, sul confine di Gaza, i cui tizzoni spenti ancora bucano il cielo, i cento uccisi sono stati fatti a pezzi e stuprati in un pogrom senza precedenti, i suoi cittadini deportati?  Ci si affanna a stabilire differenze e paralleli, si discute, si dissente, la marcia tradizionale organizzata in Israele, stavolta in Ungheria, conta anche i sopravvissuti dei kibbutz: il presidente di Yad Va Shem Dani Dayan sostiene che comparare il 7 ottobre alla Shoah è un regalo a Hamas e alla folle, feroce massa, che negli atenei del mondo tiene per Sinwar. La spina nel costato è profonda: il giorno della Shoah in Israele deve riaffermare “never again”.

Ma quale Shoah? Quella conclusasi nel 1945, tre anni e mezzo di strage sistematica di ebrei, o quella del 7 di ottobre, una giornata di impensabili orrori? E’ una domanda dura, viva, sensata: rispondono accendendo 6 fiaccole per i 6 milioni i sopravvissuti: Pnina Hefer, un’insegnate decisa e forte, ungherese, deportata ad Auschwitz con tutta la famiglia; Allegra Gutta, deportata dalla Libia dagli italiani; Arie Eitani, nato a Milano, un eroe della sopravvivenza, da Auschwitz alla prigione di Cipro, fondatore del Kibbutz Ha’on; Raisa Brodsky, ucraina, dalla sofferenza totale alla memoria come educatrice; Michael Bar On, polacco, combattente di prima linea appena giunto in Israele; Izi Kabilio, di Sarajevo, anche lui un esempio di resistenza e di amore per la vita; Ytzhak Pelmutter oggi nonno e bisnonno di una tribù con le sue pazzesche avventure di sofferenza e eroismo; Haim Noy fuggito scalzo dalla Cecoslovacchia, sopravvissuto ad Auschwitz. Lo raccontano fieri, non c’è dubbio: Israele è la loro fortezza, il loro punto di arrivo. E hanno ragione: se Israele fosse già esistito, come il sionismo chiedeva da cento anni, e gli ebrei avessero riavuto la loro patria, mai ci sarebbe stata una shoah. E il 7 di ottobre è diverso da Baranov: qui dopo che l’assalto, lo stupro, l’eccidio, sia pure tardi, dopo che troppo era accaduto, è arrivato l’esercito, gli invasori sono stati respinti, uccisi, e poi gli è stata portata una dura guerra. Ma resta, oltre le armi, terribile e inaspettata, invece la costruzione perversa del consenso ideologico e di piazza che ha ricostruito.

Il paragone qui è lecito e carico di minaccia fra antisemitismo ideologico nazista, puntato alla cancellazione degli ebrei, e quello orribile e in piena proliferazione, cui si assiste nel mondo, puntato alla distruzione di Israele. È una costruzione sofisticata, ricca, che sull’antisemitismo tradizionale, proietta la salita sul proscenio di una folla ignorante e presuntuosa di rappresentare il futuro progressivo del mondo, mentre ne rappresenta lo sprofondare nella mancanza di conoscenza e di morale. Tutto è rovesciato. La dittatura, l’odio per le minoranze, per le donne, per gli omosessuali, che gli antisemiti in piazza dicono di rappresentare sono presenti nel loro amico Hamas, e nei loro sponsor, l’Iran e la Russia. La loro shoah è dal fiume al mare, l’eliminazione di una Nazione e di un popolo indigeno e non coloniale, ma essi rovesciano su questo popolo l’accusa di essere ciò che essi pretendono di odiare: coloniale, di apartheid, genocida... è il famoso rovesciamento della Shoah che dal 1975, quando l’ONU dichiarò Israele “razzista” si è compiuto passo passo. Ieri e oggi Israele affronta da solo il rischio per cui, come dice la Bibbia, “ad ogni generazione qualcuno si alza per ucciderci”. L’ha dichiarato Netanyahu, stavolta nel più drammatico fra i giorni della Memoria, quello in cui la memoria è rovesciata.

Nel giorno della Shoah oggi alle dieci dal 1953, un momento mistico avvolge Israele: durante una sirena di due minuti, tutto si immobilizza e tace, nelle scuole, negli uffici, nei negozi, nelle strade le auto si fermano, volano nell’aria i propri cari uccisi a Birkenau come di Sobibor. Ma quest’anno, il presupposto stesso della celebrazione della Shoah, la formula del “never again” è interrogativa e contorta. La domanda che la sovrasta viene dai sopravvissuti che hanno di nuovo dovuto sopravvivere all’impossibile persecuzione di un odio cieco e definitivo come quello del 7 di ottobre. Il dolce Shlomo Mansur, appassionato allevatore, salvatosi in Iraq dalla strage del Farhud organizzata dai nazisti di Haj Amin al Husseini nel 1941 è ostaggio; altri stupefatti sopravvissuti hanno visto di nuovo il pogrom, sono rimasti come da piccoli dodici ore nascosti in un armadio in silenzio. Fra loro, Dov Golebowicz, Gidon Lev, Zvi Solow, Haim Raanan. Sara Jackson polacca, sopravvissuta, ha aperto la porta della sua casa nel kibbutz a un gruppo di ragazzi terrorizzati fuggiti dal festival Nova. Lala, fra i rifugiati dall’attacco terrorista, ha ascoltato nel nascondiglio dai terroristi le storie di Sara. Adesso parlano insieme della ondata di antisemitismo bestiale e cieco di cui non si è mai più visto eguale da quando Sara si era salvata dal campo di concentramento.

Sara non ha esitato un attimo ad aprire le porte salvando così i ragazzi. La sua lotta per la vita ha contribuito alla incredibile sopravvivenza del popolo ebraico dalla Shoah, e adesso, di nuovo ancora, il popolo ebraico affronta un’altra grande sfida. Il giorno dopo la strage del 7 ottobre da tutta Israele uomini, donne, professionisti, operai, a migliaia sono corsi a prendere le armi, si sono precipitati a offrire la loro vita, scacciando l’ala della morte. Un giovane sul fronte mi ha detto “never again sono io, mio nonno è sopravvissuto ad Auschwitz, mio padre alla guerra del 73”. Lui è il migliore erede della Memoria.

 

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