Riprendiamo da LIBERO di oggi, 04/05/2024, a pag. 7, con il titolo "Israele dà sette giorni ad Hamas", la cronaca di Amedeo Ardenza
La pazienza ha un limite. Quella di Israele dura un’altra settimana. Lo ha messo in chiaro il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu rivolto, molto indirettamente, al capo dei tagliagole di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar. Gli emissari dello Stato ebraico e quelli del movimento terrorista palestinese sono seduti attorno a un tavolo in Egitto per trovare un accordo incentrato su due assi: la liberazione di una parte degli ostaggi israeliani rapiti nel sud d’Israele e trattenuti a Gaza dallo scorso 7 ottobre e l’avvio di un periodo di tregua durante il quale le Israel Defense Forces (Idf) si ritireranno, impegnandosi a non attaccare il gruppo del terrore nell’enclave palestinese.
LA TRATTATIVA
Spiegato in due righe l’accordo sembra relativamente facile da raggiungere ma le condizioni che lo accompagnano sono molteplici: quanti ostaggi dei 133 ufficialmente nelle mani di Hamas saranno liberati e con che ritmo e quanti detenuti palestinesi Hamas pretende in cambio? Quanto deve durare la tregua? Quale libertà di movimento potranno avere i palestinesi all’interno della Striscia? Ma anche quali materiali per la ricostruzione Israele permetterà ai camion di aiuti di scaricare dentro ai valichi di Gaza?
Non è un mistero che dall’inizio delle operazioni israeliane di terra lo scorso 27 ottobre, le Idf abbiano scoperto e distrutto centinaia di chilometri di tunnel costruiti da Hamas con i soldi e i materiali destinati tanto da Israele quanto dalle organizzazioni umanitarie allo sviluppo della Striscia. Lo Stato ebraico, che sempre dallo scorso 27 ottobre ha perso 263 militari nella guerra, vuole impedire al gruppo sunnita di riarmarsi e di ripristinare la rete delle comunicazioni fra i diversi gruppi armati: la stessa liberazione di detenuti palestinesi spesso già condannati per fatti di sangue appare come un prezzo molto alto da pagare a Hamas.
D’altro canto, il governo Netanyahu non può perdere altro tempo: sul piano interno la pressione delle famiglie degli ostaggi cresce di giorno in giorno e lo stesso succede sul piano internazionale.
L’amministrazione Usa del presidente Joe Biden, che a Israele ha di recente staccato un assegno da 17 miliardi di dollari in aiuti militari ma che sta anche mettendo in piedi una struttura galleggiante di aiuti umanitari per la costa di Gaza, punta a una tregua tra le parti: le presidenziali di novembre non sono così lontane e Biden vuole arrivarci con un risultato in mano. Sul conservatore Netanyahu premono però anche gli alleati delle due formazioni nazionaliste-religiose parte della coalizione di governo chiedendo a gran voce un intervento militare contro la città di Rafah, nel sud di Gaza. Al momento l’ultimatum israeliano sembra più uno strumento di pressione su Hamas che nei giorni scorsi ha respinto due accordi di tregua, anziché una minaccia vera e propria.
Due notizie di venerdì pomeriggio sembrano però indicare che la tregua si avvicina: da un lato Hamas ha reso noto che oggi invierà una delegazione al Cairo per rispondere all’offerta israeliana, dall’altro venerdì nella capitale egiziana è arrivato il capo della Cia Bill Burns pronto a fornire garanzie degli Usa sull’accordo e forse anche ad assicurarsi che nella lista degli ostaggi da liberare – sul loro numero non c’è certezza – siano inclusi anche quelli con doppia cittadinanza Israele-Stati Uniti. Una possibile ricaduta positiva di una tregua, scrive intanto il quotidiano israeliano Ynet, sarebbe il ritorno della calma anche sul fronte nord, ovvero lungo il confine israelo-libanese. La milizia Hezbollah, che dallo scorso 7 ottobre martella il nord dello Stato ebraico, si sarebbe detta pronta a tornare sulle posizioni indicate dalla risoluzione 1701 dell’Onu e cioè a nord del fiume Litani. Oggi invece Hezbollah preme sul confine nord con il risultato che 80mila israeliani del nord hanno lasciato le loro case aggiungendosi agli sfollati del 7 ottobre scappati dal sud dello Stato ebraico.
LE SANZIONI
Sul fronte regionale torna invece a farsi sentire il presidente turco Recep Tayyip Erdogan: «La Turchia finirà sotto attacco da parte dell’Occidente a causa delle sanzioni economiche decise nei confronti di Israele». Queste le parole pronunciate dal “sultano” in occasione di un incontro con la Confindustria turca, Musiad. Erdogan, che giovedì ha imposto il blocco dei commerci con Israele, ha ribadito che la decisione è stata presa «per costringere Israele ad accettare il cessate il fuoco» e che lo stop al commercio rimarrà fino a quando non cesseranno le ostilità nella Striscia di Gaza. «Nella prima fase abbiamo bloccato l’export di 54 prodotti, ma tutto il commercio con Israele è sospeso».
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