Riprendiamo da LA REPUBBLICA di oggi, 08/04/2024, a pag. 8, con il titolo "L’opera di Biden per dissuadere Israele di fronte alla comune minaccia iraniana" l'analisi di Paolo Mastrolilli.
Mesi di pressioni da parte di Biden, accelerate dopo l’ultima telefonata con Netanyahu in cui aveva minacciato di cambiare politica sulla guerra a Gaza, hanno avuto un impatto sul ritiro parziale delle truppe israeliane dal sud della Striscia, anche se il portavoce della Casa Bianca John Kirby ha commentato di non leggerci un’indicazione certa sulle prossime operazioni. Questa “moral suasion” di Washington però andava avanti già da parecchio tempo, senza risultati concreti, e quindi è logico presumere che qualche altro elemento abbia spinto Bibi ad ascoltare Joe. Ad esempio una minaccia comune, come quella dell’Iran, che dopo l’attacco israeliano a Damasco ha lasciato intendere di essere pronto ad una risposta capace di scatenare l’allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale. Problemi e reazioni di Biden erano noti. L’appoggio all’intervento dello Stato ebraico a Gaza rischia di costargli la rielezione, non solo per gli arabi americani che giurano di non votarlo nello stato decisivo del Michigan, ma anche per il malcontento diffuso nel Partito democratico. Al punto che nell’amministrazione non manca chi accusa Netanyahu di voler prolungare la guerra per aiutare la vittoria di Trump nelle elezioni del 5 novembre. L’astensione sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu per il cessate il fuoco era stata il primo segnale dell’insofferenza della Casa Bianca, ma secondo fonti vicine al presidente l’attacco che ha ucciso gli operatori umanitari della World Central Kitchen è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso.Da qui il tono duro dell’ultima telefonata con Bibi, in cui Joe aveva minacciato un cambio di politica da parte degli Usa, se Israele non avesse garantito una maggiore protezione dei civili. A partire dalla richiesta di rinunciare all’offensiva a Rafah, almeno fino a quando non ci fosse stato un piano chiaro per evitare la ripetizione delle vittime provocate al Nord, sostituendola con azioni mirate contro Hamas. Nello stesso tempo la ex Speaker della Camera Nancy Pelosi si era unita ad altri 36 parlamentari democratici nel firmare una lettera con cui chiedevano al segretario di Stato Blinken di sospendere gli aiuti militari a Netanyahu. Queste tensioni sono note, ma le pressioni non erano state ascoltate. Nei giorni scorsi però si è aggiunto il raid israeliano a Damasco, in cui sono stati uccisi il generale dei pasdaran Mohammad Reza Zahedi e il suo vice. Gli Usa si sono affrettati a smentire qualsiasi coinvolgimento, ma questo attacco ha cambiato la dinamica, con i servizi di intelligence americani che hanno lanciato l’allarme per un’imminente rappresaglia di Teheran di proporzioni tali da scatenare il temuto allargamento del conflitto all’intera regione. Da una parte, Washington vuole assolutamente evitare questa deriva, e perciò ha ancora più necessità di prima di fermare la guerra a Gaza. Da quile iniziative per i nuovi colloqui al Cairo finalizzati al cessate il fuoco. Dall’altra Israele, se è vera la minaccia di un’azione da parte dell’Iran capace di incendiare tutto il Medio Oriente, non può più permettersi contrasti con gli Usa così seri da mettere in dubbio la determinazione dell’alleato americano a difenderla. E viceversa. Questo potrebbe aver contribuito alla decisione di Netanyahu sul ritiro dal Sud della Striscia. La reazione della Casa Bianca è stata prudente, con l’invito a non leggere troppo in questa mossa. Per iniziare a riparare i danni politici in vista delle elezioni, Biden ha bisogno della rinuncia all’offensiva su Rafah, il cessate il fuoco con la liberazione degli ostaggi, e quanto meno la ripresa del dialogo per la creazione dello Stato palestinese. Questo però è un primo passo.
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