Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - l'analisi di David Brinn dal titolo "Netanyahu è un problema, ma non è 'il' problema. Hamas è il problema". Tradotto dal Jerusalem Post
Troppa melma viene gettata sulla questione delle divergenze d’opinione tra Israele e Stati Uniti sulla continuazione della guerra di Gaza.
Innanzitutto c’è l’idea – dilagante all’estero, ma che prende piede anche in Israele – che, se solo il primo ministro Benjamin Netanyahu fosse fuori dai giochi, non ci sarebbero più ostacoli al raggiungimento di un cessate il fuoco e a un accordo per il rilascio degli ostaggi trattenuti da Hamas.
Che sciocchezza. Certo, Netanyahu è una figura controversa e divisiva, e Israele riuscirebbe molto meglio nello sforzo di risanare la società lacerata, se Netanyahu si dimettesse adesso invece di aspettare d’essere buttato fuori a seguito di un’inchiesta statale nel dopoguerra.
Nessuno si fida di lui o crede alle sue motivazioni. Circolano sempre più delle discutibili teorie, provenienti non soltanto dai soliti snob di estrema sinistra ma anche da oppositori politici come l’ex Likud Moshe Ya’alon, secondo cui Netanyahu starebbe creando una crisi artificiale con gli Stati Uniti, o starebbe cercando di condurre una campagna prolungata a Rafah, al solo scopo di rimanere al potere e tenere insieme la sua coalizione, persino a scapito degli ostaggi.
In realtà, quali che siano le sue motivazioni, i principi fondamentali che guidano la sua condotta mantengono tutta la loro validità. Una campagna a Rafah rimane l’unico modo per debellare ciò che resta dei combattenti e della dirigenza di Hamas. Senza di questo, Hamas rimarrebbe al potere e nel giro di mesi, o di pochi anni, sarebbe pronta a sferrare altri attacchi sanguinosi e spietati contro Israele.
Allo stesso modo, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiede un cessate il fuoco senza condizionarlo al rilascio degli ostaggi, incoraggia Hamas a respingere qualsiasi formula che le venga presentata per arrivare al cessate il fuoco. Netanyahu e i membri del suo gabinetto di guerra, come il ministro della difesa Yoav Gallant, avevano affermato fin dall’inizio che la guerra a Gaza poteva richiedere mesi o anche più di un anno, e che richiederà molta determinazione e molta pazienza. Nessuno aveva promesso soluzioni rapide e facili.
Tutti coloro, anche in Israele, che si sgolano gridando “Bibi” e “Hamas” nella stessa frase, come se fossero due facce della stessa medaglia, stanno causando gravi danni al paese e ai suoi sforzi contro Hamas a Gaza. I social network sono già pieni di rozzi post da analfabeti che sostengono che Netanyahu è altrettanto cattivo quanto Hamas, come se ci fosse equivalenza tra una linea dura da parte israeliana e il fanatismo terrorista da parte palestinese.
Ciò che non riescono a capire costoro, e tutti coloro che vorrebbero subito Netanyahu fuori scena, è che rimpiazzare Netanyahu con un Benny Gantz o uno Yair Lapid potrebbe forse attenuare la tensione con gli Stati Uniti e portare a un approccio più diplomatico per colmare le divergenze su Rafah e sul dopoguerra, ma in ogni caso non cambierebbe in modo significativo la strategia di fondo di Israele.
In Israele c’è ampio consenso – nel governo, nella Knesset e nel paese – sul fatto che alla fine le Forze di Difesa israeliane dovranno affrontare fino in fondo Hamas, anche a Rafah, e la situazione non sembra destinata a cambiare, indipendentemente da chi è al timone di Israele.
Lapid o Gantz avrebbero permesso che i rapporti con gli Stati Uniti raggiungessero questo punto di ebollizione come ha fatto Netanyahu? Improbabile. Ci sarebbe stato un gioco diplomatico più sottile, nella consapevolezza che Biden è un vero amico d’Israele che si ritrova a condurre una difficile campagna per la rielezione contro un avversario la cui vittoria sarebbe di pessimo auspicio sia per gli Stati Uniti che per Israele.
Ma la strategia di Lapid o Gantz nei confronti di Hamas e della questione degli ostaggi non sarebbe verosimilmente molto diversa da ciò che hanno fatto governo e Forze di Difesa israeliane dal 7 ottobre in poi. Ed entro pochissimo tempo, coloro che gridano che il problema è Netanyahu continuerebbero a gridare allo stesso modo contro Israele semplicemente cambiando il nome del premier sotto accusa.
Un Gantz o un Lapid sarebbero in grado di resistere alla fortissima pressione di chi si oppone all’operazione di Rafah e pretende da Israele un cessate il fuoco non collegato al rilascio degli ostaggi, come fa la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che gli Stati Uniti si sono astenuti dal bloccare? Forse no, e forse questa “resistenza” è la vera qualità di Netanyahu, quella che continua a garantirgli il sostegno dei suoi fedelissimi: o davvero non gli importa di quello che pensano gli Stati Uniti tanto è forte la sua convinzione che Hamas debba morire affinché Israele possa vivere; oppure hanno ragione i suoi critici quando dicono che farà di tutto per mantenere in vita la sua coalizione e rimanere al potere.
Quando scopriremo qual è la sua autentica motivazione potrebbe essere troppo tardi, o potrebbe addirittura non avere importanza. Può darsi che Israele e Stati Uniti siano comunque in rotta di collisione sulla guerra, una collisione che potrebbe essere evitata solamente dall’accettazione israeliana di un cessate il fuoco col riconoscimento de facto che Hamas continuerà a controllare Gaza e a seminare devastazione in Israele ogni volta che vuole. Nessuno in Israele intende accettare un tale esito, soprattutto se non prevede la garanzia del ritorno di tutti gli ostaggi.
Se debellare Hamas è un’opzione che il mondo non intende permettere a Israele, cosa diremo agli abitanti del Sud e del Nord che sono ancora sfollati, cosa diremo alle famiglie dei 1.200 trucidati il 7 ottobre e alle famiglie di quelli che sono ancora tenuti in ostaggio a Gaza? Cosa diremo alle famiglie dei soldati caduti nella lotta contro la malvagità di Hamas?
L’unico modo per dare un senso a tutte quelle morti e sofferenze insensate, e a questi mesi di crudele prigionia, è vincere la guerra e rendere Israele di nuovo un luogo sicuro per tutti i suoi abitanti.
Nella selva di recriminazioni, risoluzioni e manovre politiche si perde la chiarezza di ciò che è accaduto il 7 ottobre: Hamas ha scatenato questa guerra e la colpa per tutto ciò che da allora è seguito ricade interamente su Hamas.
Israele e Stati Uniti sono uniti nella missione di mettere totalmente fuori gioco Hamas, anche se sono impantanati nella discussione su come raggiungere tale obiettivo. Quindi, questo è il momento giusto per ricordare che, per quanto Netanyahu sia un problema, Netanyahu non è affatto il problema. Hamas è il problema.
(Da: Jerusalem Post, 28.3.24)
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