Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 25/03/2024, a pag. 10, con il titolo "Una ripetizione della Shoah" l'analisi di Alvin Rosenfeld.
L’assalto di Hamas agli israeliani il 7 ottobre non è stato un atto di guerra come normalmente lo consideriamo, ma qualcosa di molto peggio” scrive su Tablet Alvin Rosenfeld, accademico americano fra i massimi studiosi mondiali di antisemitismo. “Non abbiamo un termine adeguato per ciò che accadde quel giorno, quindi le persone usano parole come ‘terrorismo’, ‘barbarie’, ‘atrocità’, ‘depravazione’, ‘massacro’ e così via. Tutti hanno ragione, eppure non riescono a catturare la furia scatenata al festival musicale Nova, nei kibbutz e nelle piccole città del sud di Israele. Le persone attaccate in quei luoghi non dovevano solo morire, ma morire tra i tormenti. Oltre alle torture spietate, agli omicidi, ai tagli, agli incendi, alle decapitazioni, alle mutilazioni, agli smembramenti e ai rapimenti, si sono verificati stupri di gruppo e altre forme di violenza sessuale sadica, tra cui il taglio del seno delle donne, le unghie conficcate nelle cosce e nell’inguine delle donne, proiettili sparati nelle loro vagine e persino rapporti con cadaveri femminili. Inimmaginabile? Per la maggior parte delle persone normali, sì. Ma prima di entrare in Israele, agli assassini di Hamas è stato detto di ‘sporcarli’. Ed è esattamente ciò che molti di loro hanno fedelmente fatto. Se fosse possibile racchiudere tutto il male di quel giorno in una sola immagine, sarebbe quella del sequestro di una giovane donna israeliana, Naama Levy, 19 anni, scalza, picchiata e insanguinata, con le mani legate dietro la schiena, il cavallo dei suoi pantaloni della tuta sporchi, forse per essere stata violentata, trascinata per i capelli sotto la minaccia di una pistola in un’auto di Hamas e portata a Gaza per subire un destino indicibile tra i suoi rapitori. I suoi aggressori hanno filmato ogni secondo del suo calvario; e mentre si guardano i filmati in cui viene portata via, si vedono folle vicine gridare ad alta voce ‘Allah-hu Akbar’ – Allah è il più grande – un grido di vittoria che offre la sanzione religiosa al trattamento maligno di Naama Levy e di innumerevoli altre persone sequestrate, massacrate e rapite in quel giorno orribile. Tutte le guerre causano sofferenze umane, ma le crudeltà inflitte agli israeliani il 7 ottobre superano di gran lunga ciò che normalmente accade quando gli eserciti entrano in guerra. Le azioni di Hamas avevano uno scopo diverso: non la conquista, ma l’umiliazione deliberata degli ebrei da parte di persone che li detestavano e che avevano giurato di degradarli e disumanizzarli prima di ucciderli. Per chi ha familiarità con la storia ebraica, vengono subito in mente le violenze di massa perpetrate contro gli ebrei a Kishinev nel 1903, così come il Farhoud in Iraq nel 1941 e la selvaggia decimazione delle comunità ebraiche ucraine da parte di Chmielnicki a metà del XVII secolo. Con il ricordo di quei massacri precedenti rivissuto, il 7 ottobre ha immediatamente evocato la parola ‘pogrom’. Ma come è potuta verificarsi una simile catastrofe nell’Israele di oggi? L’esercito del paese è stato acclamato come uno dei più forti al mondo ed era considerato invincibile. Eppure, il 7 ottobre, non è riuscito a proteggere il suo confine meridionale e a prevenire lo spietato attacco contro gli ebrei nell’area di Gaza. In risposta alle sanguinose azioni di Hamas, una donna israeliana ha riassunto le reazioni di praticamente ogni ebreo nel paese e di milioni di altri all’estero quando ha detto, in modo semplice e incontrovertibile: “’I peggiori incubi di ogni israeliano si sono avverati’. Il 7 ottobre 2023 è stato il giorno più distruttivo di violenza di massa contro gli ebrei dalla fine dell’Olocausto. La carneficina compiuta quel giorno, lungi dall’essere una conseguenza della guerra, è stata un’esibizione orgiastica e religiosamente sanzionata di sfrenato odio verso gli ebrei. Non si può cominciare a capirlo ignorando la Carta di Hamas e gli altri insegnamenti islamici che rendono Hamas l’organizzazione che è e la ispirano a fare ciò che fa. Hamas nasce come ramo dei Fratelli Musulmani. È ed è sempre stata un’organizzazione jihadista, che vede l’esistenza dello stato di Israele come un’intollerabile intrusione nel dominio dell’Islam (‘dar al-islam’) e si impegna a rimuovere Israele con qualunque mezzo necessario. Il preambolo della Carta di Hamas dichiara che ‘Israele esiste e continuerà ad esistere finché l’Islam non lo cancellerà, proprio come ha cancellato altri prima di lui’. Il ‘problema palestinese’, si afferma, ‘è un problema religioso’ e non è suscettibile di una soluzione politica. L’unico modo per ‘alzare la bandiera di Allah su ogni centimetro della Palestina’ è attraverso la ‘jihad’, una guerra santa. Questo è un ‘dovere per ogni musulmano, ovunque si trovi’. Come risultato del suo successo nell’invadere Israele il 7 ottobre e nell’uccidere e catturare così tanti ebrei, Hamas ha incitato le passioni di molti nel più ampio mondo arabo e musulmano e, cosa allarmante, ben oltre. In tal modo, ha enfatizzato la lettura islamista del conflitto arabo-israeliano come essenzialmente un conflitto ebraico-musulmano. La maggior parte delle persone in occidente vede il problema come fondamentalmente di natura politica e territoriale. Questo è vero, ma solo in parte. Rappresentato da Hamas, dalla Jihad islamica, da Hezbollah, dagli Houthi nello Yemen e dalla Repubblica islamica dell’Iran (lo sponsor di tutti gli altri), è anche religioso e nel suo cuore risiede una fantasia annichilazionista di uccidere ebrei e porre fine allo stato ebraico. Hamas e i suoi alleati non cercano una soluzione a due stati, ma una ripetizione della Soluzione Finale. La loro follia omicida brutalmente riuscita il 7 ottobre è stata una prova stravagante per quell’obiettivo più grande, un genocidio. Dove va a finire Israele? Proprio adesso, in guerra con Hamas a Gaza e in una battaglia ribollente con Hezbollah nel nord che potrebbe rapidamente esplodere in una guerra su vasta scala e ancora più spaventosa. Ciò che è in gioco, come la intende la maggior parte degli israeliani, non è altro che la sopravvivenza dello stato stesso. Lo hanno detto i portavoce di Hamas. Il 24 ottobre Gazi Hamad, parlando in qualità di rappresentante di Hamas a una stazione televisiva libanese, ha dichiarato che l’attacco del 7 ottobre ‘è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza, una quarta… finché Israele non sarà annientato’. L’Iran da tempo ha giurato di annientare ‘l’entità criminale sionista’ e ha inciso su alcuni dei suoi più recenti missili balistici le parole ‘Morte a Israele’ in grassetto lettere ebraiche. Ciò che è nuovo qui non sono le minacce contro Israele ma la determinazione a metterle in atto e la capacità di farlo. La riuscita penetrazione di Hamas nel sud di Israele e l’estrema violenza che ha dimostrato non hanno precedenti nella storia israeliana. Il paese è stato traumatizzato quel giorno e rimane traumatizzato, rendendo il 7 ottobre una data ormai congelata nel calendario nazionale. La maggior parte del mondo è andata avanti, ma per gli israeliani ogni giorno resterà il 7 ottobre finché tutti gli ostaggi non saranno tornati a casa da Gaza, Hamas non sarà disarmata militarmente e il suo obiettivo di annientare Israele sarà definitivamente annullato. Se Israele riuscirà a raggiungere questi obiettivi è una questione aperta. Ciò che è chiaro è che oggi gli israeliani si sentono seriamente delusi dai loro leader nazionali e militari, meno sicuri e molto più vulnerabili rispetto a prima del 7 ottobre. Sebbene le circostanze esistenziali degli ebrei che vivono fuori Israele siano molto diverse, a livello emotivo e psicologico anche loro sono stati scossi dai recenti sviluppi. Le passioni anti-israeliane scatenate nelle manifestazioni di strada, nei campus universitari e sui social media hanno accentuato le già risorgenti manifestazioni di aperto odio verso gli ebrei e scosso un senso di sicurezza precedentemente assunto. Gli studiosi accademici continueranno a discutere se l’antisionismo e l’antisemitismo siano fenomeni simili o separati, ma per la maggior parte degli altri i legami tra l’odio verso Israele e l’odio verso gli ebrei sono evidenti. Le ragioni sono chiare: il diffuso e impenitente marchio di Israele come uno stato di apartheid, genocida e persino nazista – accuse diffamatorie che erano in ampia circolazione ben prima del 7 ottobre – si stanno rapidamente normalizzando. Lo stesso vale sia per l’ostilità verbale che fisica verso gli ebrei. E’ anche evidente quanto segue: non ci sarà futuro ebraico degno di questo nome senza lo stato di Israele. Attualmente, qualcosa come il 47 per cento degli ebrei mondiali vive in Israele. Ciò significa un ebreo su due. Se Hamas, Hezbollah, l’Iran e i loro alleati riuscissero mai a liquidare Israele, la perdita sarebbe incommensurabile e irrecuperabile. La maggior parte degli ebrei ancora vivi altrove sarebbero fisicamente in pericolo, psicologicamente traumatizzati e spiritualmente indeboliti fino al punto di collassare. Questa avrebbe potuto essere la condizione ebraica dopo l’Olocausto, se non fosse stato per la fondazione di Israele, avvenuta solo tre anni dopo la liberazione dei campi di sterminio, un atto di rinascita collettiva che dimostrò un livello di indipendenza nazionale. Hamas ha deciso di invertire la situazione con la massima forza possibile il 7 ottobre. Le sue azioni omicide quel giorno avevano lo scopo di umiliare e uccidere gli ebrei e mobilitare altri per porre fine collettivamente allo stato ebraico, un obiettivo strategico che ricorda alcune parole memorabili dello scrittore ebreo ungherese e sopravvissuto all’Olocausto, Imre Kertész: ‘L’antisemita della nostra epoca non detesta più gli ebrei; vuole Auschwitz’. Gli antisemiti più appassionati di oggi continuano a detestare gli ebrei e, proprio per questo motivo, vogliono Auschwitz. Se gli israeliani non erano pienamente consapevoli di quelle odiose passioni prima del 7 ottobre, sicuramente le sono adesso. Sanno che un Olocausto è troppo e si impegnano a fare tutto il necessario per assicurarsi che non si ripeta. Hanno bisogno e meritano tutto il sostegno che possiamo dare loro”. (Traduzione di Giulio Meotti)
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@ilfoglio.it