La dissonanza cognitiva dell’Occidente
Analisi di David Elber
Piazze piene di "pacifisti" a senso unico protestano contro Israele e, di fatto, per salvare Hamas. Sparita la memoria del pogrom del 7 ottobre, il momento del cordoglio e della solidarietà formale a Israele è finito da un pezzo. L'Occidente è preda di una dissonanza cognitiva
Con il proseguire della guerra scatenata dai palestinesi il 7 ottobre, le posizioni della totalità dei paesi Occidentali, nei confronti di Israele, è mutata significativamente. Si è passati, infatti, da un modesto e doveroso cordoglio di circostanza per le vittime dell’eccidio, perpetrato dai palestinesi, ad una sempre maggiore ostilità verso Israele e gli ebrei di tutto il mondo. Questa condotta è diventata comune sia nelle “piazze” sia a livello politico (la prima ha indubbiamente condizionato la seconda). Ora, qui, ci occuperemo solo dei risvolti politici della guerra.
Come si diceva, il cordoglio di circostanza si è tradotto in frasi di grande cordoglio e vicinanza allo Stato di Israele e alle famiglie delle vittime così duramente colpiti dall’eccidio. Ma a parte gli Stati Uniti, nessun paese Occidentale ha mosso un dito per aiutare concretamente Israele e il suo popolo nella guerra contro Hamas. Nessun paese europeo ha fornito o sta fornendo armi e munizioni ad Israele per difendersi, nessuno ha fornito o sta fornendo aiuti di qualsiasi genere per i sopravvissuti dell’eccidio, o per gli oltre 250.000 sfollati israeliani (tra nord e sud del paese) che a distanza di oltre 5 mesi, non possono tornare nelle loro case per condurre una vita “normale”. In pratica si è ripetuto lo scenario già visto nel 1948 e nel 1973: il popolo ebraico è stato nuovamente abbandonato ma, questa volta, con un’aggravante. Tale aggravante è politica: il premio ventilato, per i terroristi, del riconoscimento di un fantomatico Stato da parte della comunità internazionale (compresi gli USA) quando la guerra cesserà. Questo è senza dubbio un bel passo avanti rispetto alla formulazione della Risoluzione 242, che chiudeva la guerra dei Sei giorni, o degli Accordi di Oslo. Si è passati, infatti, dal concetto di terra in cambio di pace (principio valido solo per Israele) a quello di eccidio in cambio di riconoscimento statuale. Bel passo avanti non c’è dubbio. I vecchi princìpi legali e morali come pacta sunt servanda, reciproco riconoscimento, coesistenza, accordo tra le parti appaiono del tutto anacronistici e demodé: oggi, evidentemente, è più comodo e veloce compiere un eccidio e voilà lo Stato è servito. Questo potrebbe essere un bel precedente per i curdi, i tibetani, i catalani, i baschi ma anche per i corsi, i fiamminghi, gli scozzesi, i nord irlandesi, i tirolesi e tantissimi altri. Ma ha conti fatti si ha la netta sensazione che questo principio, in voga in tutte le cancellerie Occidentali (anche in Italia del governo “amico” della Meloni e Tajani), valga solamente se una delle due controparti è Israele mentre per nessun altro caso al mondo è preso in considerazione. Perché questo doppio standard? Perché, anche se non espressamente detto, Israele è considerato uno Stato illegale, e come tale deve sempre – e solo lui – concedere qual cosa alla controparte. Tale principio è iniziato prima ancora della nascita dello Stato ebraico: lo si può retrodatare almeno al 1922, quando la Gran Bretagna operò la separazione della Transgiordania dal territorio previsto per il futuro Stato nazionale ebraico. Diventa chiaro che anche in Europa (e negli USA), consciamente o inconsciamente, il popolo ebraico non ha diritto alla propria autodeterminazione men che meno in Terra di Israele. Questa profonda convinzione ha portato ad una vera e propria dissonanza cognitiva della realtà mediorientale. Ora ne vediamo i tratti principali.
Oggi è convinzione praticamente unanime che se non si è ancora arrivati ad un accordo con i palestinesi è colpa “dell’intransigenza di Netanyahu”. Ma questa affermazione cancella almeno 100 anni di storia precedente nei quali è stata l’intransigenza araba a non permettere nessun accordo. Infatti, tutte le proposte discusse sono, sempre e solo, state rigettate dagli arabi (1937, 1947, 1967, 1995, 2000, 2008). Però, oggi, si ha, in Europa e negli USA, la convinzione che se non si trova un accordo è per colpa del “governo intransigente” israeliano di turno, sia che esso sia di destra o di sinistra. Prendiamo ad esempio gli Accordi di Oslo. Essi furono salutati in Occidente (e nella sinistra israeliana) come la svolta di una nuova epoca: la tanta agognata pace sembrava a portata di mano. Ma la realtà dei fatti ha dimostrato che si è trattato di una colossale inganno da parte dei palestinesi che così hanno potuto ottenere una grandissima autonomia (ben maggiore di quella dei tirolesi in Italia che è citata a modello in tutto il mondo) dando solo vaghe promesse in cambio, promesse ha non hanno mai mantenuto (rinuncia al terrorismo). Quando gli Accordi di Oslo sono deragliati nel 2000 con il rifiuto di Arafat alla proposta di Ehud Barak, tutta la pressione politica e diplomatica è stata riversata unicamente su Israele e non sui palestinesi. Qui la dissonanza cognitiva occidentale si è palesata in pieno: più gli arabi si irrigidivano nelle loro posizioni più diventava colpa di Israele che doveva concedere sempre di più: maggiore territorio, liberazione di terroristi, accettazione di milioni di “profughi”, blocco degli “insediamenti”. Ogni volta che sembrava vicino un accordo, gli arabi scientemente alzavano le loro pretese, e tutte le volte, per l’Europa e per gli USA, era Israele che doveva cedere qualcosa in più. Questa litania è andata avanti per trent’anni e i frutti di Oslo li si sono visti appieno il 7 ottobre. Ma nonostante l’eccidio compiuto dai palestinesi la colpa ancora una volta è ricaduta su Israele: il ritiro unilaterale israeliano da Gaza del 2005, ad esempio, è diventato, nelle menti dissonanti occidentali, una finzione. Così Gaza è “occupata”, Gaza è “una prigione a cielo aperto” e via dicendo. Senza mai spiegare compiutamente però, come da una “prigione a cielo aperto” si possano sparare migliaia di razzi (oltre che fabbricarli o importarli dall’Egitto), ogni anno, verso i civili israeliani oppure costruire 800 chilometri di tunnel in un’area “occupata”. Ogni volta che Israele si difendeva dalle aggressioni palestinesi, diventava inevitabilmente lui l’aggressore in un palese ribaltamento della realtà. Un altro aspetto fondamentale della dissonanza cognitiva dell’Occidente è quello relativo al “benessere”. In Occidente si ha infatti, da decenni, la convinzione che la causa di ogni conflitto risieda nella “povertà economica”. Quindi se si coprono di soldi i “poveri”, questi, smetteranno di fare guerre, terrorismo e violenze. Ma è proprio così? No, questa regola dalla fine della Seconda guerra mondiale ha funzionato solo per la Germania e il Giappone. Ma in questi due paesi ha giocato un ruolo fondamentale la cultura. Tale logica (denaro in cambio di pace) in Medio Oriente non ha mai funzionato, è vero il contrario: più soldi sono stati stanziati più terrorismo e violenza sono aumentati. Il caso palestinese è emblematico in tal senso: dagli Accordi di Oslo in avanti i palestinesi hanno ricevuto più del doppio dei soldi del piano Marshall, con il quale l’Europa si rimise in piedi dalle distruzioni della guerra, ma la loro propensione al terrorismo anziché diminuire è aumentata a dismisura. Ad una analoga conclusione è arrivato lo storico Efraim Karsh, in un suo lavoro di ricerca sugli arabi israeliani, nel quale ha evidenziato che tanto più i governi di Israele, a partire dagli anni ’70, hanno finanziato la comunità araba tanto più essa si è radicalizzata fino a far scoppiare un’autentica rivolta, in tutte le città miste, nel maggio del 2021. Quello che l’Occidente non capisce è che in Medio Oriente sono, ancora, radicate delle regole cultural-religiose che in Europa e negli USA non esistono più e la religione ha un peso ben maggiore del “benessere”. E questa è la ragione per cui non si può trovare un accordo tra Israele e i palestinesi, perché culturalmente Israele, per gli arabi, non ha posto in Medio Oriente e non perché in Israele ci sia benessere e nei territori palestinesi molto meno.
Questo ragionamento vale anche in campo militare. L’Occidente non ha capito (o fa finta di non capire) che se Israele non vince in modo netto e inequivocabile (come fecero gli Alleati con la Germania e il Giappone) questa guerra contro Hamas, la sua deterrenza militare subirà un colpo mortale e questo porterà, inevitabilmente, ad un futuro scontro con una ricostruita Hamas, ma anche con Hezbollah e l’Iran, come fu in Europa dopo la Prima guerra mondiale con la Germania. In Medio Oriente la deterrenza e la forza militare hanno una valenza ben maggiore che in Occidente, dove si crede che non servano, perché dopo quasi ottant’anni di pace (grazie unicamente agli USA) non si concepisce più l’uso della forza militare. Invece, questa, ha ancora, nel mondo reale, un suo enorme peso: il caso Ucraina lo testimonia. Analogo ragionamento vale per i “compromessi”: in Medio Oriente sono visti come debolezza e non con come volontà di pace. I compromessi servono solo alla parte debole per guadagnare tempo per rafforzarsi e attaccare quando si sente sufficientemente pronta per aggredire l’avversario. Questo è quanto accaduto il 7 ottobre. Infatti, il ritiro israeliano dalla Striscia, il permesso di ingresso in Israele di decine di migliaia di lavoratori, di malati per le cure, di ricongiungimenti famigliari non sono serviti a niente, così come il costante flusso di materiali e soldi che sono serviti unicamente ad Hamas per rafforzarsi e non per trovare un “compromesso”.
Questo problema di dissonanza cognitiva se non curato provocherà come prima vittima Israele ma non si fermerà ad esso: lo stesso Occidente presto ne pagherà le conseguenze.
David Elber