Un'ideologia di violenza
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
https://www.jns.org/an-ideology-of-violence/
In fin dei conti, l’antisemitismo è fondamentalmente un’ideologia di violenza. Dietro ogni missiva e ogni ostilità – sia spedita online, sia durante le manifestazioni pro-Hamas o scritta sui muri di un edificio pubblico ebraico – c’è un messaggio di disumanizzazione che autorizza attacchi fisici contro gli ebrei e le loro proprietà.
Nei quasi cinque mesi trascorsi da quando i terroristi di Hamas hanno orchestrato l’orrendo pogrom del 7 ottobre in Israele, la violenza antisemita è esplosa dappertutto. Ci sono circa 16 milioni di ebrei in tutto il mondo, concentrati principalmente in Israele e negli Stati Uniti, ma con una presenza anche in Europa, America Latina, Africa e Oceania. Per quanto mi risulta, non c'è una sola comunità ebraica che non sia stata sfregiata da quest'ultima ondata di ostilità. Inoltre, nei due decenni in cui ho scritto sulla violenza antisemita, non c’è stato un singolo episodio in cui l’autore del reato fosse un personaggio pubblico o qualcuno con un profilo mediatico. Non mi riferisco qui alla retorica antisemita che abbiamo sentito da influencer come il rapper Kanye West, o da un’infinità di eminenti rappresentanti di governo che scagliano parole come “genocidio” contro Israele, o affermano che gli ebrei della diaspora che si uniscono all’esercito israeliano dovrebbero essere rinchiusi in carcere con l’accusa di tradimento e crimini di guerra. Sto parlando di persone che abbiano oltrepassato il limite commettendo aggressioni e persino omicidi, che prendano di mira gli ebrei semplicemente perché sono ebrei. I nomi di individui di cui altrimenti non avremmo mai sentito parlare, come Kobili Traoré , che nel 2017 ha brutalmente ucciso una donna ebrea, Sarah Halimi, nel suo appartamento di Parigi; o come Stephan Balliet , il neonazista tedesco che ha tentato di sparare in una sinagoga nella città di Halle, in Germania, durante lo Yom Kippur nel 2019, sono rimasti impressi nella nostra coscienza esclusivamente a causa delle loro azioni bestiali. Ma le cose stanno cambiando. La settimana scorsa, la polizia della città australiana di Melbourne ha arrestato una nota influencer pro-Hamas, una donna che gode dell'attenzione di alcuni funzionari pubblici di quel Paese e le cui attività passate le hanno procurato una copertura mediatica, con l'accusa di aver ideato il rapimento e la tortura di un giovane la cui unica colpa era quella di lavorare per un datore di lavoro ebreo. La donna libanese-australiana di 28 anni, Laura Allam, è l'amministratore delegato della Fondazione Al Jannah, che si presenta come un'organizzazione umanitaria islamica. Mentre i profili dei social media di Allam specificano che è ancora alla guida di Al Jannah, una voce nel Registro Australiano delle Imprese rileva che la fondazione ha cessato le sue attività a luglio del 2023, meno di tre anni dopo la sua costituzione formale. Ma anche se la sua organizzazione umanitaria può essere poco più che una copertura, Allam si è assicurata di mantenere viva la propria voce nel dibattito interno australiano sulla guerra a Gaza – un dibattito che, come altrove, è stato macchiato da invettive antisemite, teorie cospirazioniste e celebrazioni assetate di sangue delle morti israeliane. Il 16 febbraio le attività pro-Hamas di Allam hanno preso una piega notevolmente più sinistra. Insieme a un complice, identificato dal blog Israellycool come Muhammad Sharab, un fanatico pro-Hamas i cui post sui social media che attaccano Israele sono decorati con immagini di spade di samurai e ninja, Allam avrebbe sequestrato la sua vittima di 31 anni che non viene nominata, a tarda notte nel sobborgo di St. Albans a Melbourne sotto la minaccia delle armi. A causa delle restrizioni draconiane imposte nel riportare il caso da parte delle autorità australiane, che hanno vietato la pubblicazione del nome e della fotografia di Allam da parte dei media locali, i dettagli completi dell'aggressione non sono stati diffusi. Quello che sappiamo, però, è che la vittima è stata picchiata così duramente da aver bisogno di lunghe cure ospedaliere. Dopo l’incidente, Allam è rimasta in silenzio, tranne che per un ultimo post sul suo account Instagram prima che venisse chiuso. Con disgustosa autostima, Allam si è dipinta come una vittima, ignorata da anonimi “leader della comunità” che “si girano da un’altra parte e dicono parole ripugnanti come 'questa non è la nostra battaglia' mentre una donna nella vostra comunità ha ormai sopportato una vita di dolore, sofferenze e traumi”. Tali leader, continuava, non avevano nulla da temere da lei, almeno per il momento. “Sono orgogliosa del mio altruismo (sic) e dell'idea di rimanere in silenzio, per ora”, ha scritto. “Perché? Beh, mi piacerebbe sperare che voi cosiddetti 'individui altruisti' vi rendiate conto che se io decido di parlare apertamente di quel che è accaduto, ciò avrà l'effetto più dannoso mai visto sulla nostra comunità e su ogni singolo sforzo che abbiamo messo nel nostro movimento.” Allam, a quanto pare, riconosce che il suo passaggio alla violenza antisemita rappresenterebbe un inconveniente per la comunità che afferma di rappresentare. Eppure non ci sono scuse da parte sua, solo la decisione tattica di “rimanere in silenzio”. Una vera promessa da parte di una donna con i suoi precedenti. Prima della notizia dell'attentato di Melbourne, Allam aveva già attirato l'attenzione nazionale per i suoi messaggi furibondi sui social. “Tanti saluti”, ha dichiarato dopo aver appreso della morte di quattro soldati dell’IDF a Gaza. Un giorno dopo il pogrom del 7 ottobre, annunciò di essersi “svegliata con alcune grandi notizie dalla nostra amata Palestina.”
La gioia di Allam per le uccisioni di massa, gli stupri e le mutilazioni che hanno caratterizzato il 7 ottobre è stata un chiaro segnale ai politici australiani di evitare qualsiasi contatto con lei, ma loro non lo hanno fatto. Durante una manifestazione pro-Hamas davanti al parlamento australiano a Canberra all'inizio di febbraio, Allam si è schierata al fianco dei senatori del Partito Verde di sinistra, attirandosi il rimprovero del conduttore televisivo Andrew Bolt. “I Verdi potrebbero non sapere del passato di Allam, ma questo è chi si trovano accanto a loro nei loro bassifondi” ha dichiarato, in riferimento alla notizia di dicembre, secondo cui Allam stava usando la Fondazione Al Jannah per far insediare palestinesi da Gaza in Australia, cosa che aveva portato i politici dell’opposizione a chiedersi se con il pretesto dell’umanitarismo, non siano già stati importati in Australia dei sostenitori di Hamas. Orchestrando un’aggressione contro qualcuno il cui “reato” era quello di lavorare per un datore di lavoro ebreo, Allam ha smesso di essere una sostenitrice di Hamas ed è diventata, di fatto, un veicolo per diffondere la sua rappresaglia al di fuori del Medio Oriente. Incoraggiare la “resistenza” non è più sufficiente per il movimento pro-Hamas che ingombra le nostre scuole, università e strade con i suoi slogan genocidi; ora stanno duplicando quelle stesse tattiche di “resistenza” per intimidire le comunità ebraiche indifese al loro interno. Allam potrebbe essere un esempio scioccante di questa tendenza, ma purtroppo non è l’unica.
La settimana scorsa, gli studenti ebrei dell’Università della California, Berkeley, sono stati costretti a evacuare un edificio dove avrebbero dovuto tenere una riunione dopo che agitatori pro-Hamas si erano radunati fuori, picchiando sulle finestre e gridando “intifada, intifada”. Due studenti ebrei finirono per essere aggrediti. Se studiate il video di quell'episodio, rimarrete colpiti soprattutto dal comportamento della folla, i loro volti sono un'autentica immagine di virtù che si manifesta mentre urlano "vergognatevi" ai ragazzini ebrei che stavano solo cercando di tenere una riunione, ma che in quel momento erano l’incarnazione dell’odiato Stato sionista.
I nostri leader eletti – negli Stati Uniti, in Europa e altrove – ci hanno deluso. Ogni esplosione di odio antisemita nella storia è stata guidata da una folla, e la situazione attuale non è diversa. Non illudetevi; la folla è tornata, e questa volta indossa una kefiah invece del bracciale con la svastica. Se le autorità non espelleranno queste persone dai nostri campus e non le imprigioneranno quando attaccano gli ebrei, e se non saremo disposti o non saremo in grado di difenderci, scopriremo, prima o poi, che l’unica opzione che abbiamo è quella di dirigersi verso le uscite.
Ben Cohen, scrive su Jewish News Syndacate