Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 22/02/2024, a pag. 4 l'analisi di Yasha Reibman dal titolo "Così si è sfasciato il legame tra il Sudafrica e Israele (si vede sui palchi)".
Yasha Reibman
Milano. L’accusa a Israele di genocidio, sollevata all’Aia dal Sudafrica, è stata sdoganata nel linguaggio comune e nell’opinione pubblica, in Italia anche a grazie a Ghali (per questo premiato da un’associazione considerata vicina a Hamas) e soprattutto grazie a quanti hanno fatto passare la performance a Sanremo come un messaggio di pace e questa imputazione come una verità assodata. E’ il nuovo conformismo, eppure non è una novità. L’Unione sovietica ha introdotto questo bacillo negli anni Sessanta, stigmatizzando Israele come il nuovo nazismo e nel 1975 facendo passare all’Assemblea generale dell’Onu la mozione che equiparava il sionismo al razzismo (mozione poi cancellata nel 1991). E il bacillo si è diffuso.
Tra Pretoria e Gerusalemme ci sono 8.527 chilometri, nessun confine in comune, nessun interesse intrecciato, nessun conflitto inevitabile tra i due stati. Eppure è il Sudafrica che cita in giudizio Israele alla Corte internazionale. La tensione tra i due paesi non nasce con l’operazione militare israeliana successiva all’attacco di Hamas il 7 ottobre, ma molti anni prima. Tra il continente africano e Israele è in corso una lunga storia d’amore con molti tradimenti. Nel 1947 solo due stati africani erano indipendenti, Liberia ed Etiopia; la prima votò a favore e la seconda si astenne sulla mozione che consigliava la spartizione del mandato britannico e la nascita di Israele. Con la decolonizzazione e l’indipendenza degli stati africani, l’Africa divenne parte della “strategia della periferia” di Israele: scavalcare l’ostilità del medio oriente tramite alleanze con i regimi antisovietici confinanti con i paesi arabi nemici che circondavano lo stato ebraico. Nell’Africa subsahariana, Israele veniva vista con simpatia sia per essere nata in contrapposizione alla potenza coloniale britannica, sia per l’antipatia verso gli arabi considerati discendenti dei mercanti che avevano venduto gli schiavi africani. Grazie anche all’intraprendenza di Golda Meir, per dieci anni ministro degli Esteri, Israele divenne il paese al mondo – dopo gli Stati Uniti – ad avere più ambasciate in Africa, fino a conseguire il ruolo di stato osservatore dell’Organizzazione dell’Unità africana. Israele collaborava con gli stati africani per migliorarne l’agricoltura, la gestione idrica, la sanità, oltre che l’addestramento e l’equipaggiamento militare.
L’amore si incrina nei primi anni Settanta, quando si espandono nel continente l’influenza dell’Unione sovietica e dell’Egitto suo alleato e, sui paesi con una forte componente musulmana, quella dell’Arabia Saudita e della Libia di Gheddafi. Nel giro di due anni, uno dopo l’altro, gli stati africani interrompono i rapporti diplomatici e commerciali con Israele, al punto che alla fine della guerra del Kippur, nel 1973, solo quattro paesi fanno eccezione (Lesotho, Malawi, Swaziland e Mauritius). Tradita e isolata, Israele tenta una nuova relazione e decide di aprirsi – come già da tempo facevano in chiave antisovietica diversi paesi occidentali (compresi Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti) – al Sud africa dell’apartheid. Tuttavia nel 1985, con la proclamazione da parte di Pretoria dello stato di emergenza, Stati Uniti, Gran Bretagna e poco dopo anche Israele impongono sanzioni al Sudafrica.
L’ex ambasciatore israeliano Alon Liel, di recente intervistato nel podcast in ebraico “Ehad Beiom”, ha raccontato che in quel periodo nell’establishment israeliano c’era una spaccatura: i funzionari del ministero della Difesa valutavano che il regime di apartheid sarebbe durato ancora decenni, mentre al ministero degli Esteri ritenevano che il sistema sarebbe caduto in pochi anni. Liel ha riferito di aver iniziato a mettere insieme un network per prepararsi alla fine dell’apartheid e a tessere le relazioni con l’African national congress (Anc), il partito guidato da Nelson Mandela, allora in carcere. Divenuto ambasciatore in Sudafrica, Liel ha organizzato l’ambasciata suddividendola in due zone con due ingressi separati, una per i funzionari degli Esteri e l’altra per quelli della Difesa; in questo modo i due gruppi potevano operare senza il rischio che le due controparti sudafricane – il governo e l’Anc – potessero incrociarsi creando imbarazzi.
Riconoscente verso il leader palestinese Yasser Arafat per averlo sostenuto nella clandestinità e nella detenzione, ma allo stesso tempo memore che un avvocato ebreo gli avesse offerto il suo primo lavoro e alla luce del processo di pace in corso tra israeliani e palestinesi, Mandela era disposto a inaugurare nuove relazioni con Israele, dove si recò nel 1999. Il Sudafrica tuttavia era saldamente nell’orbita di Mosca. Era stato il primo paese africano a riconoscere la Federazione russa, con cui aveva poi stipulato accordi commerciali e militari. Pretoria si è dimostrata negli anni un fedele alleato, non ha criticato l’annessione della Crimea e si è astenuta all’Onu dal condannare Mosca per l’aggressione a Kyiv. Nei confronti di Israele, l’Anc non ha proseguito sulla linea tracciata da Mandela, ma ha sposato una sempre maggior ostilità; nel 2001 dopo la conferenza di Durban è stato fondato proprio in Sudafrica il boicottaggio accademico verso le università israeliane. Il complicato rapporto tra Gerusalemme e Pretoria riflette in parte quanto successo nelle relazioni con il resto del continente. Israele, a cominciare dagli anni Ottanta, ha ricostruito i rapporti con gli stati africani, delusi dallo scarso aiuto ottenuto da Gheddafi e in cerca di nuove alleanze dopo il crollo dell’Unione Sovietica. A partire dagli anni anni Novanta e Duemila, Israele ha dovuto sempre più fare i conti con altri attori. L’Iran ha allargato la propria influenza sostenendo i vari gruppi islamisti sia direttamente sia tramite i contatti di Hezbollah con la diaspora libanese, l’influenza della Russia è tornata in scena anche tramite la brigata Wagner schierata su vari fronti africani e si assiste a una progressiva penetrazione degli interessi cinesi.
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