La vita in Israele tra stress, lacrime e speranza
Diario di guerra di Deborah Fait
Risalire in casa dal rifugio e ricevere sul cellulare “Tutto bene, mamma?”con la fotografia delle mie nipotine, di 3 e 6 anni, sulle scale del loro palazzo con i genitori e il loro cane, fa male al cuore. L’esercito ha consigliato già tanti anni fa, quando Hamas aveva incominciato a lanciarci migliaia di missili sulla testa, di rifugiarsi sulle scale, dal terzo piano in giù se non si ha il tempo (un minuto e mezzo) per raggiungere il rifugio. Ormai, dopo tre mesi di guerra, con l’aggiunta di tanti anni di terrorismo, in Israele tutti soffriamo, chi più chi meno, di disturbo post traumatico da stress. Viviamo giorni buoni alternati a momenti di depressione e di sconforto, spesso di rabbia. Rabbia al pensiero di come potremmo vivere bene in questo paese se non fossimo circondati da tanto odio. Rabbia pensando cosa potrebbe essere Israele, con la sua inventiva, la sua voglia di migliorare sempre di più, la sua intelligenza e il suo ottimismo, se non fossimo sempre impegnati a difenderci. Rabbia nel vedere che i nostri vicini non pensano ad altro che alla morte, nostra e loro, anziché voler costruire una bella vita per i loro figli. Io, a volte, divento furiosa guardando come trattano i loro bambini, come insegnano loro a odiare, ad ammazzare, crescendoli nella miseria morale e fisica mentre, se avessero accettato la presenza di Israele, avrebbero potuto fare una vita meravigliosa. Avrebbero potuto vivere in pace, nel benessere, con valori importanti, completamente diversi dalla violenza, avremmo potuto interagire, trarre ricchezza gli uni dalla cultura degli altri. Invece niente. Guerra e morte, violenza e morte. A questo hanno pensato per decenni, distruggendo le loro vite e le nostre, distruggendo la loro gioventù che ha l’unico obiettivo di martirizzarsi ammazzando l’ebreo. Il dolore e lo sconforto penetrano in noi ogni giorno quando leggiamo l’elenco dei nostri ragazzi morti in guerra per difenderci da quei mostri. Ragazze e ragazzi giovanissimi, fratelli, sorelle, padri, madri ammazzati ogni giorno da chi ha come unico obiettivo e valore la morte. Dopo tre mesi di guerra l’Idf ha smantellato il quadro militare di Hamas al nord della Striscia, adesso sono arrivati al sud per fare pulizia e liberare il mondo dal cancro di quegli assassini, stupratori, tagliagole. Hanno eliminato un bel numero di terroristi, tra cui molti capi, ma ne restano ancora tanti, sono come le formiche, più di 30.000 nascosti in ogni buco, dietro ogni muro, sotto terra, tra le macerie. I nostri soldati cadono nello loro imboscate perché Hamas usa come informatori bambini, vecchi, donne che spingono carrozzelle piene di armi e mappe sulle posizioni dell’esercito. Israele non spara su donne e bambini e questi ne approfittano per fare le vedette e a volte per posizionare dietro i sassi qualche mina. I nostri, al contrario, non possono sapere dove si nascondono i terroristi, da che buco usciranno per sparare, dove sarà nascosto l’esplosivo che li farà saltare in aria. Ogni giorno leggiamo quanti capoccia terroristi sono stati uccisi ma accanto c’è un altro elenco: Avi, Ilan, Ido, 19, 21, 26 anni. La nostra bella gioventù decimata da mostri assetati di sangue, e per nessun motivo che non sia solamente l’odio che li tormenta, un odio assatanato. Siamo attaccati anche da nord, Hezbollah non molla. Più di centomila cittadini di Israele hanno dovuto abbandonare le loro case e, con quelli che sono stati sfollati dal sud, fanno più di trecentomila persone ospitate negli alberghi (vuoti per l’assenza di turismo) o in casa di amici. Questo significa sentirsi sradicati, non poter lavorare, non sapere se ritroveranno la loro casa intera. Ogni sera kikar hachatufim, la piazza degli ostaggi, è colma di canti, preghiere e lacrime, tante lacrime. A volte anche manifestazioni di protesta “Bring Them Home NOW”, questo è il grido che esce dal cuore di ogni israeliano “Portali a casa ADESSO”. Dicono che i mostri abbiano ancora 136 ostaggi ma non sappiamo quanti di essi siano vivi e in quali condizioni mentali e di salute. Quelli già liberati soffrono di paure incontenibili, i bambini sussultano ad ogni porta che si apre, si coprono le orecchie e piangono in silenzio perché là, nell’inferno, non potevano farsi sentire senza che il guardiano di turno mettesse loro una pistola alla tempia. Alcuni sono rimasti senza i genitori ammazzati in quel maledetto sabato nero, hanno il ricordo di averli visti torturare davanti ai loro occhi terrorizzati di bambini che non avevano mai vissuto la violenza. Chiedono in continuazione se ci sono ancora gli uomini cattivi. E poi c’è il piccolo Kfir, rapito a nove mesi, che ha compiuto un anno in prigionia. Il piccolo Kfir con i riccioli rossi che aspetta di essere salvato, sempre se un angelo non l’ha già portato via da quell’inferno per farlo volare su una nuvola bianca. Finalmente libero dagli orchi che tanto lo spaventano.